Le ricordanze

La poetica del vago e della rimembranza

Luca Pirola
10 min readApr 24, 2021

Scritta nel 1829, la poesia appartiene ai cosiddetti Canti pisano-recanatesi (o Grandi idilli). Al centro di questa poesia c’è la ricordanza: Leopardi, tornato dopo qualche anno a Recanati (il “natio borgo selvaggio”), esplora le memorie legate al suo passato. La casa paterna, il paese natale, se stesso in gioventù: questi gli oggetti del ricordo del poeta, che esplora e misura la sofferenza inflitta nella vita a lui e a tutti gli esseri umani, vittime delle illusioni infrante dell’infanzia e dell’adolescenza.
La poesia è una canzone libera leopardiana, composta da 173 endecasillabi sciolti divisi in sette strofe di lunghezza differente.

Il lungo canto è il racconto, in sette strofe, di un malinconico ritorno a Recanati, sul cui andamento narrativo si innestano i temi lirico-evocativi. L’alternanza di momen- ti narrativi, evocativi e polemici toglie compattezza alla struttura del canto, ma le conferisce, in cambio, una modulazione ben orchestrata, in cui spesso i motivi che chiudono una strofa sono poi ripresi a lungo nella strofa successiva (per esempio, I strofa, vv. 25–28 e II strofa; IV strofa, vv. 100–103 e V strofa).

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l’aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l’aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
lá nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de’ servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicitá fingendo al viver mio!
ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.

Nella prima strofa il poeta colloquia con le stelle dell’Orsa che evocano le immagini del passato. Il poeta, affacciato alle finestre del palazzo paterno, dove credeva non sarebbe più tornato, intrattiene con le stelle un dolce dialogo, che rievoca gioie e sogni — poi svaniti — della sua fanciullezza. Sfilano, serene, le immagini del passato — il cielo, la verde campagna, le lucciole, il sussurro del vento nei prati profumati, le voci dei servi — accompagnate dal ricordo dei pensieri immensi di allora, ancora inconsapevoli del suo destino di dolore.

La consueta tematica del ricordo si stempera lungo tutta la lirica, dando vita a un canto ampio e ben orchestrato. La nitida bellezza delle immagini — che scaturiscono dagli spunti narrativi — è resa con un linguaggio armonioso. Esso rinuncia agli effetti della rima e si affida, per la sua musicalità, principalmente agli accostamenti fonici, che producono una modulazione dolce del suono (molto alta è la frequenza delle liquide -l-, -r- e delle nasali -m-, -n-, che temperano l’eventuale durezza di altri suoni (per esempio ai vv. 1–3). Ricorrono, talvolta, anafore (soprattutto di e, vv. 4, 6, 9, 14, 15) e iterazioni (per esempio: quante immagini… quante fole, v. 7; dolce… dolce, e nelle strofe successive ai vv. 57, 58; O speranze, speranze, v. 77; Sento… sento, v. 93). Particolarmente emotivo è l’effetto fonico della annominazione, con il gioco di ripetizione della parola cantai funereo canto, v. 118.

Il lessico è ricco di echi e rimandi a quello di altre liriche del poeta, quasi a rinforzare la tematica di un ricordo pervasivo e tenace, che abbraccia tutta una porzione di vita: i luoghi e le persone di sempre. Si tratta di parole ed espressioni che designano paesaggi, occupazioni e figure umane della Recanati tante volte rievocata. Molte sono anche le parole che rimandano alla piacevolezza di ciò che è vago e indefinito, e perciò — secondo Leopardi — sommamente poetico: per primo l’aggettivo dell’incipit, vaghe, che immette — con la sua connotazione di bellezza indefinita e lontana — in una suggestiva atmosfera notturna, illuminata solo da stelle e lucciole; oppure il lontano canto della rana (rimota, v. 13), la fioca lucerna, v. 115 ecc.

Né mi diceva il cor che l’etá verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil, cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non giá, ché non mi tiene
maggior di sé, ma perché tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de’ malevoli divengo:
qui di pietá mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia c’ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil, piú caro
che la fama e l’allòr, piú che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell’arida vita unico fiore.

Il testo prosegue rievocando la giovinezza nel natio borgo selvaggio. Nella ricordo, il natio borgo selvaggio risalta per la sua ostile angustia culturale. Ora il poeta sa che avrebbe dovuto trascorrervi anni di duro isolamento, assistendo all’inesorabile perdita della gioventù (dell’arida vita unico fiore).

La metrica rafforza il complessivo effetto di musicalità: l’endecasillabo sciolto, la frequenza degli enjambements, la sintassi mossa, la posizione delle cesure (che sembrano dar vita a un succedersi di settenari anche dentro l’endecasillabo) confe- riscono al ritmo un andamento melodioso e fluido, giocato insieme sulla regolarità e su variazioni sottili. La tonalità complessiva che scaturisce dalle scelte stilistiche è prevalentemente dolce, interrotta, di tanto in tanto, da timbri meno gradevoli là dove più insistente è la riflessione amara, come per esempio nella II strofa. In essa il disagio per la rozzezza dei recanatesi si esprime con parole la cui durezza di significato è evidenziata anche dai suoni aspri (zotica, strani, v. 31; aspro a forza; v. 39; sprezzator, v. 42).

Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga;
dolce per sé; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire: — Io fui. —
Quella loggia colá, vòlta agli estremi
raggi del dí; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al fianco
m’era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombâro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltá fingendo ammira.

Il ricordo, tuttavia, è consolatorio se lo si confronta con la situazione presente. Il rintocco della torre si associa a quello che, nel passato, confortava i suoi terrori notturni. E, come quel suono, ogni altra cosa — vista o udita — suscita immagini trascorse (la loggia, le mura affrescate, le sale piene di voci festose…); ricordi di per sé dolci — o comunque soffusi di rimpianto — che contrastano con il duro presente. Ricordi di un tempo in cui potente era la capacità del poeta di illudersi (il mio possente errore), in quanto allora gli appariva gioioso l’intollerabile mistero dell’esistenza.

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima etá! sempre, parlando,
ritorno a voi; ché, per andar di tempo,
per variar d’affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l’onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben vòti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi! ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sí vile
e sí dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m’avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sará giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirá l’avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell’imago ancora
sospirar mi fará, farammi acerbo
l’esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dí fatal tempererá d’affanno.

Le illusioni giovanili erano puri fantasmi; l’unica meta ora è la morte. Il poeta non sa dimenticare le speranze giovanili, i dolci inganni, anche se sono solo fantasmi (gloria, amore…); la vita, in realtà, è priva di scopo (non ha la vita un frutto) e l’unica meta che rimane ora al poeta, inconsolabile per la durezza del proprio destino, è la morte.

E giá nel primo giovanil tumulto
di contenti, d’angosce e di desio,
morte chiamai piú volte, e lungamente
mi sedetti colá su la fontana
pensoso di cessar dentro quell’acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de’ miei poveri dí, che sí per tempo
cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co’ silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.

Le profonde angosce del passato. Il pensiero della morte lo riporta ad altri ricordi, questa volta carichi di sofferenza: le profonde angosce giovanili, il pianto per la malattia che aveva rischiato di stroncare la sua giovinezza, le dolorose veglie notturne trascorse poetando (funereo canto).

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui giá scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza! è spenta?

Il profondo rimpianto per la giovinezza. Nessuno, afferma il poeta, può ricordare senza rimpianto il proprio ingresso nella giovinezza, quando il mondo viene incontro soccorrevole e accogliente. La fugacità di quei giorni rende chiunque li abbia perduti consapevole della propria sventura.

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Piú non ti vede
questa terra natal: quella finestra,
ond’eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che piú non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
fûro, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti, e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando, in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventú, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l’antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
dico: — O Nerina, a radunanze, a feste
tu non ti acconci piú, tu piú non movi. —
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
van gli amanti recando alle fanciulle,
dico: — Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore. —
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
dico: — Nerina or piú non gode; i campi,
l’aria non mira. — Ahi! tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti; e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

Il rimpianto ora si fa più acuto perché imperniato su Nerina. Di lei, ormai scomparsa, parlano solo i luoghi che le fecero da cornice; muta è la sua voce, un tempo fonte di emozione; rapido come un sogno il suo passaggio nella vita. Perdura nel cuore del poeta l’antico amore e la nostalgia di quegli aspetti del vivere che con lei ormai non può più condividere (primavera, amore, fiorita piaggia…).

Il motivo del ricordo struggente e pieno di incanto, ma anche di amara disillusione per le speranze svanite, è lo stesso che si trova in A Silvia: nel passaggio dalla fanciullezza alla maturità il poeta fa la conoscenza con il dolore (di questo albergo ove abitai fanciullo, / e delle gioie mie vidi la fine, vv. 5–6) come in A Silvia («All’apparir del vero / tu, misera [riferito alla speranza], cadesti» vv. 60–61). Ad accomunare le due liriche è anche la presenza delle due figure femminili. Entrambe, secondo il critico De Sanctis, rappresenterebbero il mito della femminilità e della giovinezza. In realtà, piuttosto diverso sembra il ruolo assegnato alle due giovani donne: più evanescente, perché allegorico, quello di Silvia (la sua funzione è quella di rappresentare la speranza e la parte del poeta che ha gioito e sperato: «Cara compagna dell’età mia nova»), più concreto quello di Nerina, evocata proprio nella sua sostanza di persona amata (In cor mi regna l’antico amor, vv. 157–158), la cui voce era fonte di un vero e proprio turbamento (ogni lontano accento… scolorarmi, vv. 146–148). Ben più astratta e “metafisica” è l’esperienza associata alla persona di Silvia («Lingua mortal non dice…; Che pensieri soavi, / … che cori, o Silvia mia!», vv. 26–29).

--

--