L’esteta: un raffinato infelice
Il ritratto di Andrea Sperelli (Il Piacere, cap.2)
Il brano proposto è tratto dal secondo capitole del Piacere. Il Piacere è il primo romanzo che D’Annunzio scrisse nell’estate del 1888 e pubblicò l’anno successivo, ottenendo un largo successo di pubblico e imponendosi anche all’estero come narratore esordiente.
Il protagonista è Andrea Sperelli, un giovane aristocratico che ha avuto un’educazioen raffinata e vive a Roma, dove frequenta la buona società.
In questo brano il narratore traccia qui la storia della sua formazione, che riassume i principi di una visione estetica della vita. Andrea Sperelli, così come ci viene descritto da D’Annunzio, è il tipico eroe decadente, il cui temperamento mostra una profonda debolezza della volontà e un’assenza del senso morale, sostituiti dall’istinto, da un esasperato senso estetico e da una concezione edonistica della vita.
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizione familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intellettuale.
Il ritratto di Andrea Sperelli ci mostra le caratteristiche psicologiche del personaggio. Egli è un conte, anzi, è un giovine signore: chiaro è qui il rimando al protagonista del Giorno di Parini che però, a differenza di D’Annunzio, era animato da intenti censori e sarcastici. D’Annunzio non ha questi intenti anche se mostra una presa di distanza critica dal personaggio, presentato come l’emblema di una classe sociale fin de siècle, edonista e decadente.
Andrea Sperelli è l’ideal tipo di un modello umano esemplare (che rappresenta in parte lo stesso D’Annunzio): il perfetto esteta. Le sue passioni principali sono la passione per l’arte e la bellezza, erudita e raffinata, perché nutrita di studi e letture. Procedendo da questa premessa l’esteta — attraverso un completo dominio di sé (Habere, non haberi) — fa della propria vita un’opera d’arte; attua l’estensione del culto della bellezza dall’arte alla vita, e l’estetica diventa una morale. Comprendendo questa regola superiore, l’esteta prova disprezzo per la massa, si distacca dagli uomini comuni, perché non vuole avere a che fare con il grigio diluvio democratico che rende tutti volgarmente uguali e indistinti. Nonostante tale idea di superiorità, l’esteta non è mai soddisfatto di sé, perché insita nel culto della bellezza è l’inappagabile ricerca della sensazione, dell’immaginazione, del piacere, come una continua sperimentazione di nuove esperienze.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’ venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.
Il brano può essere suddiviso in tre parti. In questa prima parte viene chiarita la formazione del protagonista. La sua educazione non segue le scuole, ma è “viva” perché si basa sull’esperienza e la conoscenza diretta della realtà, grazie ai numerosi viaggi intrapresi con il padre per tutta l’Europa.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il narratore onnisciente osserva Sperelli come un oggetto da studiare e ce ne mostra tutti i difetti. Egli conosce più cose del suo personaggio, è su un piano conoscitivo superiore rispetto a lui, e questo si traduce in una presa di distanza giudicante, come vediamo per esempio in questo e in altri passi del testo. Nonostante Andrea Sperelli sia presentato come un modello, si incontrano nel testo giudizi negativi sulla debolezza del suo carattere e sugli effetti dell’educazione che ha ricevuto.
D’Annunzio sceglie parole antiquate, che riflettano l’eleganza del protagonista (realità, espansion, ma in tutto il brano si possono trovare molti esempi analoghi); inoltre adotta una sintassi elaborata, con frequenti iterazioni o parallelismi strutturali (Lo spirito di lui… in lui… in lui…).
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui».
Questa è la massima fondamentale, la regola di vita che Andrea Sperelli seguirà per tutta la sua esistenza: la vita deve diventare un’opera d’arte, deve cioè essere stabilita dall’uomo d’intelletto, che la regola a suo piacimento. Possiamo qui notare uno stilema tipo della narrativa dannunziana, cioè l’inserimento all’interno della narrazione di frasi celebri e di detti sapienziali, che fungono da riferimenti autorevoli cui legare i comportamenti dei personaggi.
Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: — Habere, non haberi».
Anche, diceva: «Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni».
Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima. Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. «Il sofisma» diceva quell’incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.»
Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.
La figura del padre è essenziale per comprendere il carattere di Sperelli. Le sue “massime” inculcano nel figlio una concezione edonistica della vita, intesa come somma di piaceri da perseguire ogni giorno. Andrea comprende che il piacere è il valore più alto di tutti, tanto da mettere in secondo piano la verità: egli diventerà così abile nella menzogna da non saper più essere sincero nemmeno con se stesso.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Poiché il romanzo vuole essere anche uno studio scientifico della psicologia del protagonista, D’Annunzio talvolta deve tenere a freno la vivacità della sua scrittura, alternando forme più enfatiche a forme più sintetiche e asciutte, come in questi enunciati.
Nella successiva parte del testo — la seconda sequenza — , D’Annunzio narra il trasferimento di Sperelli a Roma. Dopo la morte del padre il giovane ha ereditato una cospicua fortuna e si trova dunque nella possibilità di disporre liberamente delle proprie sostanze. Roma, e in particolare la Roma dei Papi, riflette il temperamento di Sperelli, perché rispecchia la vita lussuosa e mondana cui egli aspira.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».
La cura lessicale di D’Annunzio lo induce a impiegare nel paragrafo seguente il termine inglese home (con il significato di “alloggio”, “dimora”) sia perché Sperelli è appena tornato dall’Inghilterra, sia perché il termine riflette lo snobismo linguistico diffuso in quel periodo presso certi ambienti. Immediatamente dopo inserisce la parola tepidario termine, che indica propriamente un ambiente delle terme romane, usato da D’Annunzio per indicare un luogo gradevole.
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de’ Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l’ombra dell’obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d’invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de’ morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d’oro come una città dell’Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne’ mari australi.
Quel languore dell’aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L’anima converte in fenomeni psichici le impressioni dell’organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
L’arrivo a Roma e la stagione autunnale influiscono decisamente sull’animo di Sperelli, che sperimenta un’invincibile tristezza… un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia: questa descrizione mette indirettamente in luce aspetti fondamentali del carattere di Sperelli, cioè la sua anima svuotata di ogni energia, la sua volontà debole, la sensazione della mancanza di senso.
Nella parte conclusiva del testo è resa esplicita la “malattia” dell’animo di Sperelli. Si tratta di una malattia della volontà: Sperelli non ha un nucleo morale attorno al quale far gravitare la vita, è torturato da un Ideale, ma non ne ha perseguito alcuno. Quello di Sperelli è dunque un io che non ha più una centrale unità. Tuttavia non è ancora l’io frantumato del pieno Novecento, ma rimane ancorato alla superficialità delle sensazioni, per quanto fugaci.
Certo egli ora entrava in un novello stadio. — Avrebbe alfin trovato la donna e l’opera capaci d’impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? — Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancóra prodotto nessuna opera notevole. Avido d’amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de’ pensieri l’imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contradditorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio. Gli uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così, l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.
La volontà debole di Sperelli ha ceduto agli istinti e il senso estetico ha preso il posto di quello morale: Sperelli è l’emblema di una società decadente, raffinata ed edonista che è totalmente priva di moralità e volontà e prefigura l’immagine dell’inetto, colui che è incapace di vivere nella società contemporanea.