L’infelicità dell’uomo

Dialogo di Tristano e di un amico — Le Operette Morali

Luca Pirola
14 min readApr 11, 2020

Nell’ultimo dialogo delle Operette morali è protagonista, sotto il nome emblematico di Tristano, l’autore stesso, che ripropone in forma allegorica le discussioni con gli amici di convinzioni moderate e progressiste, da cui il poeta dissente. Il nome Tristano allude sia al protagonista dell’epos romanzesco medievale, emblema dell’infelicità e della tragicità del destino, sia, per via paretimologica (Tristano/triste), all’infelicità stessa come condizione esistenziale.

Il dialogo di Tristano e di un amico

L’operetta è strutturata in tre parti: nella prima Tristano finge una ritrattazione delle proprie idee, che in realtà è un modo ironico di smantellare le false certezze dell’amico.

La prima parte è a sua volta articolata in tre piani di discorso:
- quello sulla teoria dell’infelicità umana, espressa dallo scrittore ma non condivisa dai lettori;
- quello incentrato sulla limitatezza dei contemporanei, cui si oppone la magnanimità del poeta-filosofo;
- quello della polemica contro la cultura del secolo XIX.

AMICO Ho letto il vostro libro [le Operette morali, pubblicate per la prima volta a Milano nel 1827]. Malinconico al vostro solito.
TRISTANO Sì, al mio solito.
AMICO Malinconico, sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.

Il primo tema affrontato permette a Leopardi di constatare che la propria teoria dell’infelicità umana non è accolta e recepita dagli uomini e, per di più, è ascritta al fatto che egli sarebbe partito dalla propria personale infelicità per farne una legge generale. Ciò provoca nell’autore dapprima sdegnoe poi riso: i toni eroici della contestazione giovanile si sono ormai trasformati, in lui, in un più maturo atteggiamento distaccato e ironico. La similitudine che Leopardi usa per descrivere l’atteggiamento di rimozione da parte dei contemporanei è di tono comico-popolare: paragona, infatti, la credulità dei contemporanei nella teoria progressista della felicità umana a quella deimariti che si ostinano a credere fedele una moglie infedele; questa illusione di realtà è un segno evidente di micropsychia (piccolezza d’animo).

TRISTANO Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
AMICO Infelice sì forse. Ma pure alla fine…
TRISTANO No no, anzi felicissima [Tristano ritratta la precedente affermazione, secondo un procedimento costante in tutto il dialogo]. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale.

La contrapposizione fra il protagonista e il suo tempo è evidenziata dalla rivendicazione di magnanimità che egli avanza contro la viltà d’animo dei contemporanei. L’ottimistica fiducia nel progresso e nella felicità umana è segno della viltà interioredei contemporanei, a cui si oppone il coraggio di Tristano, il quale analizza la realtà senza finzioni consolatorie: è questa la vera radice della sua speculazione e non certo la sua situazione di infelicità personale. Leopardi, in questo modo, rivendical’organicità e la piena dimensione filosofica del proprio pensiero, escludendo qualsiasi implicazione di carattere emotivo esentimentale; per di più, afferma una linea di continuità fra il proprio pensiero e quello dei filosofi e scrittori dell’antichità, siapagani sia cristiani, citando una serie di aforismi e detti che, da Omero alla Bibbia, illustrano l’ineluttabile condizione di infelicità dell’uomo non come fatto accidentale, ma come peculiarità dell’esistenza umana.

Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l’Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma dell’intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi che l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva.

La polemica contro il concetto di progresso si articola in due punti.
a. La differenza fra gli antichi e i moderni è la stessa che passa fra l’uomo e il bambino. I contemporanei non educano più il corpo, per colpa delle teorie spiritualistiche che si concentrano sull’educazione dello spirito, e perciò sono fragili come bambini; ma, dal momento che l’educazione del corpo va di pari passo con quella dello spirito, ne risulta che anche dal punto di vista culturale espirituale i moderni sono inferiori agli antichi.

AMICO E avete cambiata opinione?
TRISTANO Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO E credete voi tuttoquello che crede il secolo?
TRISTANO Certamente. Oh che maraviglia?
AMICO Credete dunque alla perfettibilità indefinita [in tono ironico, Leopardi afferma di credere nel progresso continuo dell’uomo] dell’uomo?
TRISTANO Senza dubbio.
AMICO Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando? TRISTANO Sì certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchie- rare, ma la vita non è per lui. E perciò anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito.[è un riferimento del poeta agli anni degli studi giovanili, che hanno compromesso la sua salute.] E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl’individui paragonati agl’individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.

b. La scienza e il sapere di massa, divulgati dalle enciclopedie e dai giornali, non sono vera scienza, che è possesso soltanto dipochi eletti. La massificazione del sapere non comporta alcun salto qualitativo, ma consiste soltanto nell’estensione quantitativa di un sapere generico e superficiale di cui sono espressione i giornali, ironicamente definiti maestri di luce eportatori di una profonda filosofia.

AMICO Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
TRISTANO Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni addietro, e anche piùtardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran partedi quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitaledi cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.

Nella seconda parte l’amico propone all’autore di emendare il libro e questi ne attacca apertamente le tesi.

AMICO In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
TRISTANO Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
AMICO In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
TRISTANO Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?
AMICO Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.
TRISTANO Sì certamente, de’ vostri.

Nella terza parte l’autore definisce le Operette e le loro finalità, esprimendo infine la sua vocazione alla morte.

L’amico sostiene che, avendo l’autore ritrattato la sua filosofia e le sue affermazioni, il libro non può essere trasmesso ai posterinella sua veste attuale. A questo punto, allora, Tristano passa all’attacco diretto ed esplicito, tanto che l’amico è costretto adifendersi e a giustificare anche il secolo XIX, le cui pecche deriverebbero dal fatto di essere un’epoca di transizione. A questo Tristano risponde che tutte le epoche sono di transizione, in quanto il tempo si evolve continuamente e, quindi, non ci possonoessere stasi e cesure. Il vero problema è che questo secolo è peggiore degli altri in quanto, mentre negli altri esisteva lamediocrità accanto a poche menti eccelse, in questo secolo c’è solo la nullità dei molti accanto alla vacuità degli intellettuali, ed una cultura che punta alla quantità e non alla qualità del sapere.

AMICO Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
TRISTANO Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v’è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de’ posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
AMICO Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
TRISTANO Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.
AMICO Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.
TRISTANO Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
AMICO O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi.
TRISTANO Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.

La parte finale del dialogo è incentrata sul destino delle Operette morali e del loro autore. Leopardi afferma con forza l’originalità del suo libro. Esso nasce da un’esperienza reale di infelicità personale, sofferta e analizzata con coraggiodall’autore, che non ha temuto di investigare il senso dell’esistenza; a differenza della letteratura contemporanea, propensa alla fuga dalla verità, le Operette rivelano dunque il coraggio virile e magnanimo del loro autore. Inoltre l’autore ha coniugato la fantasia e l’immaginazione con l’indagine filosofica, ripristinando, almeno parzialmente, quell’armonia fra immaginazione evero tipica della poesia antica.

AMICO Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo libro?
TRISTANO Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.
AMICO Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.

L’opera si chiude con l’indicazione della morte come condizione privilegiata, così riprendendo, ma in piena serietà, senza più ironia, uno dei motivi centrali del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Ai tempi del pessimismo storico, Leopardi aveva creduto che l’infelicità fosse conseguenza della consapevolezza razionale del vero; ora sa che è una condizione ontologica dell’intero universo. Dunque, neppure gli sciocchi possono sottrarvisi. Per questo motivo, nei confronti dei propri simili prova un sentimento di profonda e dolente pietà. Il binomio riso (polemica)-pietà, sintetizza il significato delle Operette: e anche se la polemica occupa uno spazio decisamente maggiore, acquista significato soltanto alla luce del secondo dei due atteggiamenti. Il pensiero di Leopardi, infatti, non conduce all’odio verso i propri simili, il riso non è disprezzo, ma volontà fraterna di correzione e guida (non per nulla il dialogo è indirizzato ad un amico), che si fonda sulla pietà per la comune condizione di debolezza e sofferenza.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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