L’Inferno del Novecento
Primo Levi, Se questo è un uomo, capitolo 9
Nel romanzo Se questo è un uomo (scritto tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947) Primo Levi narra la sua terribile e angosciosa esperienza di deportato nel lager nazista di Auschwitz. Il libro è una fedele cronaca dell’allucinante vicenda vissuta in prima persona, unita a riflessioni e considerazioni più generali sul comportamento dei nazisti e degli internati.
Nel corso di Se questo è un uomo la realtà infernale del lager richiama più volte all’autore quella dell’inferno dantesco. Ad esempio, una volta arrivati con la tradotta (il treno costituito da carri bestiame o merci) nei pressi di Auschwitz e caricati su alcuni camion, Levi si accorge di avere un solo soldato tedesco di scorta, che nel buio fitto (la stessa costante dell’inferno di Dante) «accende una pila tascabile, e invece di gridare “Guai a voi, anime prave” ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo». Dunque Levi si sente uno di quei dannati adunati sulle rive di Acheronte per essere trasportati all’inferno dal moderno Caronte (il soldato tedesco) che però, anziché «dimonio, con occhi di bragia» che «batte col remo qualunque s’adagia», si rivela inaspettatamente cortese, tanto da suscitare nei deportati collera e riso insieme.
In un altro passo del romanzo, Levi si trova davanti al dottor Pannwitz per sostenere l’esame di chimica ed essere ammesso al costituendo Kommando Chimico. L’esaminatore è «alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania». La descrizione di questa postura, sottolineata dall’avverbio «formidabilmente» (in senso etimologico: “che incute paura“, dal latino formido = “paura“) è, per ammissione dello stesso Levi, una reminiscenza dantesca: «Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia» (“Vi si erge — nel primo cerchio infernale — con aspetto orribile Minosse, e ringhia”, Inferno, V, 4); Minosse è il giudice infernale che «essamina le colpe ne l’intrata; / giudica e manda secondo ch’avvinghia» (Inferno, V, 5–6).
Il canto di Ulisse
Il luogo più marcatamente dantesco è un capitolo intitolato non casualmente Il canto di Ulisse. In tale ca- pitolo, il deportato Levi, insieme a un compagno, Jean, uno studente alsaziano, è incaricato di andare a prelevare la marmitta del rancio. Nel tragitto tra una baracca e l’altra, Jean gli dichiara il suo amore per l’Italia e il suo desiderio d’imparare l’italiano. A questo punto, inspiegabilmente, a Levi viene in mente il canto di Ulisse (Inferno, XXVI) e cerca di recitarglielo, seppure frammentariamente a causa dei vuoti di memoria, e di tradurglielo in francese in forma prosastica. Proprio questa memoria dantesca li illuminerà, come attraverso una folgorazione, sul proprio destino e aprirà anche una breve parentesi che permetterà loro di riscoprire la propria natura di uomini. Leggiamo dunque un brano tratto da questo capitolo, corredato delle note scritte dallo stesso Levi.
Il rancio si ritirava a un chilometro di distanza; bisognava poi ritornare con la marmitta di cinquanta chili infilata nelle stanghe. Era un lavoro abbastanza faticoso, però comportava una gradevole marcia di andata senza carico, e l’occasione sempre desiderabile di avvicinarsi alle cucine.
Rallentammo il passo. Pikolo era esperto, aveva scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, senza destare sospetti. Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi. Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri! Anche sua madre lo rimproverava di non saper mai quanto denaro aveva in tasca; anche sua madre si sarebbe stupita se avesse potuto sapere che se l’era cavata, che giorno per giorno se la cavava.
Passò una SS in bicicletta. È Rudi, il Blockführer. Alt, sull’attenti, togliersi il berretto. — Sale brute, celui-là. Ein ganz gemeiner Hund –. Per lui è indifferente parlare francese o tedesco? È indifferente, può pensare in entrambe le lingue. È stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano. Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito, una cosa vale l’altra, l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora.
Passa Limentani, il romano, strascicando i piedi, con una gamella nascosta sotto la giacca. Pikolo sta attento, coglie qualche parola del nostro dialogo e la ripete ridendo: — Zup-pa, cam-po, ac-qua.
Passa Frenkel, la spia. Accelerare il passo, non si sa mai, quello fa il male per il male.… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà: Capirà: oggi mi sento da tanto.
… Chi è Dante.Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso: Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia.
Jean è attentissimo ed comincio lento e accurato:Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e là menando
come fosse la lingua che parlasse
mise fuori la voce e disse: Quando?
I passi della Divina Commedia contenuti in questo capitolo sono citati a memoria, e perciò contengono molte inesattezze.
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”.
E poi “Quando”? Il nulla.Un buco nella memoria. “Prima che sì Enea lo nominasse”. Altro buco. viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “…la pietà del vecchio padre, né il debito amore Che dovea Penelope far lieta…” sarà poi esatto?… Ma misi me per l’alto mare aperto
Di questo sì, di questo son sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “ misi me” non è “je me mis” è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto; Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci deve essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
“Mare aperto”. “ Mare aperto”. So che rima con “diserto”; “… quella compagnia picciola, dalla qual non fui diserto”,, ma non rammento più se viene pria o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle Colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio: Non ho salvato un verso, ma vale la pena di fermarcisi.… Acciò che l’uom più oltre non si metta
“Si metta” dovevo venire in un Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima “ e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante.Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento PiKolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguire virtude e conoscenza.Come se anch’io lo sentissi per la prima volta; come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi pregava di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene: O forse è qualcosa di più: forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
La famosa terzina appena citata acquista un valore terribilmente attuale per l’autore e per il suo amico: in Lager si vive «come bruti», la «semenza» umana è calpestata, virtù e conoscenza sono relegate ai rari attimi di pace.
Li miei compagni fec’io sì acuti …
… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile “……Lo lume era di sotto della luna” o qualcosa di simile; ma prima?….Nessuna idea “Keine Almug” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
-Ca ne fait rien. vas-y tout de meme.… Quando mi apparve una montagna bruna
per la distanza e parvemi alta tanto
che mai veduta non avevo alcuna.Sì, sì “alta tanto”, non “ molto alta”, proposizione consecutiva: e le montagne, quando si vedono di lontano … le montagne … oh Pikolo, Pikolo, dì qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per saper saldare “ non avevo alcuna col finale”. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, mi mordo le dita, ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi “… la terra lagrimosa diede vento …”no, è un’altra cosa. e’ tardi, e’ tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:Tre volte il fè girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, come altrui piacque …Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque” prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e latro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui….
I versi che precedono contengono un «anacronismo», cioè un concetto difforme dal tempo in cui la vicenda si svolge: Ulisse, pagano, e per di più dannato, si serve d’una espressione («come altrui piacque», cioè «come piacque a Dio») che è propria del cristiano credente. Ma, appunto, l’Ulisse dantesco è un eroe moderno, e riassume in sé tutte le ansie e le audacie del tempo di Dante e, possiamo aggiungere, del nostro.
In quell’istante, all’autore pare di intravvedere una conturbante analogia fra il naufragio di Ulisse e il destino dei prigionieri: l’uno e gli altri sono stati paradossalmente «puniti», Ulisse per aver infranto le barriere della tradizione, i prigio- nieri perché hanno osato op- porsi a una forza soverchiante, qual era allora l’ordine fascista in Europa. Ancora: fra le varie radici dell’antisemitismo tedesco, e quindi del Lager, c’era l’odio e il timore per l’«acutezza» intellettuale dell’ebraismo europeo, che i due giovani sentono simile a quella dei compagni di Ulisse, e di cui in quel momento si riconoscono rappresentanti ed eredi.
Siamo ormai alla fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta — zuppa degli altri Komandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle.-Kraut und Ruben?-Kraut und Ruben — . Si annunzia che la zuppa è di cavoli e rape — Choux et navets. — Kaposzta es repak
Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.
Il verso, che chiude il Canto di Ulisse col tragico naufragio in vista del Monte del Purgatorio, chiude anche un altro «folle volo», e cioè la breve parentesi umana, lo sforzo dell’autore e di Pikolo di sollevarsi per un momento al di so- pra dell’orizzonte desolato della prigionia.
Perché proprio Dante, perché proprio il canto di Ulisse per cominciare a insegnare l’italiano a uno straniero? La risposta alla prima domanda è da ricercare nel fatto che «l’italiano è la lingua di un libro, la Commedia, divenuto riferimento per i letterati di tutta Italia, dal nord al centro, al sud, alle isole» (C. A. Ciampi). Alla seconda si può rispondere con ipotesi abbastanza intuibili: il motivo del viaggio verso il mare aperto, verso la libertà assoluta dal carcere disumanizzante in cui il prigioniero è relegato; le suggestioni che l’eroe greco ha sempre suscitato quale straordinario emblema dell’essenza dell’uomo, grazie alla sua intelligenza, alla sua sete di conoscenza e forse anche a quella fine tragica a cui Levi si sente in qualche modo condannato.
Suffragano tali ipotesi l’insistenza dell’autore su certi versi quale «ma misi me per l’alto mare aperto», di cui cerca di sottolineare la forza espressiva. Levi in- fatti ha colto implicitamente il significato aggiunto della forte allitterazione «ma misi me per l’alto mare aperto») che esprime fonicamente l’intenso desiderio di Ulisse di conoscere un mondo ignoto, verso il quale si proietta per appagare la sua natura più profonda di uomo. In quel verso c’è, per il prigioniero, l’inconscio desiderio di evasione verso uno spazio sconfinato e aperto che si contrappone al circoscritto e chiuso car- cere dove si consuma la sua miserrima esistenza.
La faticosa ricerca mnemo- nica della rima di «aperto» con «diserto» lo porta alla «compagna picciola», a quei compagni che non hanno mai cessato di seguire Ulisse e all’«orazion picciola» con cui questi cerca di persuaderli a seguirlo nell’ultimo fatale viaggio:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
È a questa terzina forse che tendeva veramente l’inconscio di Levi/deportato, ridotto a un numero tatuato indelebilmente sul braccio, spersonalizzato e trasformato in una larva umana attraverso un processo di degradazione e di umiliazione infinita, perché in questa celebre terzina c’è scolpita l’essenza dell’uomo: il «seguir virtute e canoscenza», senza le quali si è semplicemente e rozzamente dei «bruti». Condizione alla quale Levi è stato ridotto contro la sua volontà, ma non annichilito al punto di aver smarrito il desi- derio di sentirsi ancora veramente uomo. Il tramite, lo strumento del riscatto dalla involontaria condizione di bruto a quella volontaria di uomo, è stata la grande poesia, recuperata in un difficile ma non impossibile sforzo di memoria, poiché il messaggio dell’arte sublime si deposita per sempre sul fondo dell’animo umano e proprio nei momenti più tragici può costituire un viatico, un aiuto spirituale per trovare la forza di sopravvivere in un contesto che tende ad annientare qualunque parvenza di umanità.
Questi versi hanno per il prigioniero una freschezza primigenia, sono «uno squillo di tromba» che lo risveglia dal torpore della vita brutale, sono «la voce di Dio» che ha la straordinaria capacità taumaturgica di fargli dimenticare la realtà degradante del luogo e la sua perdita d’identità. Anche Jean, pur tra le difficoltà dei diversi codici linguistici che li separano, sembra coinvolto e toccato da questo piccolo miracolo che la poesia ogni volta rinnova.
Poi lo sforzo rievocativo si avvia verso il finale dell’episodio di Ulisse; tale è il coinvolgimento emotivo e il desiderio di comunicazione dell’alto messaggio all’amico straniero, che Levi darebbe la zuppa del giorno per potersi ricordare il finale; e quel finale, che faticosamente riaffiora, apre un altro squarcio di verità, rivela «il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui». Anche loro hanno la colpa paradossale, come Ulisse, di sfidare una potere più grande di loro (l’oppressione nazista e fascista), anche loro sono destinati a soccombere, anche per loro il mare si richiuderà. La fine del racconto coincide con l’arrivo alla baracca. I due portantini, con sulle spalle le stanghe della marmitta che servirà a trasportare il rancio, appaiono nella loro grottesca e tragica realtà esteriore di poveri esseri ridotti ad automi. Ciò che pone fine all’incantesimo creato dalla poesia è quel grido prosaico «Kraut und Ruben» (zuppa di cavoli e rape); una parentesi di luce ha fatto tuttavia brillare gli animi, ha fatto riscoprire la loro essenza di uomini calpestati e vilipesi ma non ancora piegati nei valori più alti che la poesia ha contribuito a tenere vivi.