Lo sguardo, la scrittura e la macchina

Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Luca Pirola
7 min readOct 7, 2024

Quaderni di Serafino Gubbio operatore è il romanzo con il quale Pirandello vuole misurarsi con la nuova età del progresso tecnico. Lo scrittore denuncia apertamente il pericolo che comportano le innovazioni tecnologiche. Nell’età delle esaltazioni futuriste, Pirandello non esita a pubblicare un romanzo polemico e critico contro la nuova società. Il presente romanzo si fa portavoce degli ideali dell’autore e lotta contro l’alienazione meccanica. Pirandello avanza una forte critica contro la nuova società industrializzata, contro il meccanismo delle macchine. Meccanismo che per Pirandello è sinonimo di alienazione, cancellazione di passato e sostituzione del mondo naturale.

Serafino Gubbio, il protagonista narratore, è un giovane napoletano dalle velleità intellettuali frustrate, assunto come cine-operatore per un film commerciale. Serafino riprende la scena dell’omicidio della protagonista da parte del suo fidanzato, convinto di essere stato tradito. Il trauma subito lo rende muto, perciò si esprime attraverso la scrittura dei diari, come forma di estrema resistenza contro la meccanizzazione dell’arte.

§ 1.

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.

In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero o m’aggredirebbero.

No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro nè certo neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.

Nell’incipit del romanzo il narratore si rivolge direttamente ai lettori, senza rivelare nulla di sé, tranne che per l’accenno ai suoi occhi intenti e silenziosi e la professione che traspare anche dal vocabolario tecnico utilizzato.

Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo là. — No, caro, grazie: non posso! — Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare…. — Alle undici, la colazione. — Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola…. — Bel tempo, peccato! Ma gli affari…. — Chi passa? Ah, un carro funebre…. Un saluto, di corsa, a chi se n’è andato. — La bottega, la fabbrica, il tribunale….

Il pensiero critico verso le macchine e la società moderna si rivela dalla descrizione dell’umanità condizionata da un congegno esterno meccanico della vita che non concede riposo agli uomini. Gli uomini comuni non sono in grado di percepire tale condizionamento, evidente a chi va oltre l’apparenza della quotidianità.

Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopratutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra facciamo un gesto da ubriachi.

— Svaghiamoci! —

Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicchè dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.

Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno, ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follìa, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.

Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono frequente in America, di uomini che a mezzo d’una qualche faccenda, fra il tumulto della vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io — modestamente — sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.

Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo io cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare.

Io non opero nulla.

Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.

Questo si chiama segnare il campo.

Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perchè possa indicare fin dove arriva a prendere.

Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione da svolgere.

Io domando al direttore:

— Quanti metri? —

Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:

— Attenti, si gira!

E io mi metto a girar la manovella.

Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando il manubrio. Ma non mi faccio nè questa nè altra illusione, e séguito a girare finchè la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore:

— Diciotto metri, — oppure: — trentacinque. —

E tutto è qui.

Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:

— Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sè? —

Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti, barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perchè con quella domanda voleva dirmi:

— Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un qualche meccanismo? —

Sorrisi e risposi:

— Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si svolge davanti alla macchina. Giacchè io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo — sissignore — si arriverà a sopprimermi. La macchinetta — anche questa macchinetta, come tante altre macchinette — girerà da sè. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sè, questo, caro signore, resta ancora da vedere. —

Al termine del primo capitolo si riconosce Pirandello nel signore con occhi arguti e dal sorrisetto malizioso, che pone la domanda fondamentale a Serafino: prima o poi le macchine sostituiranno l’uomo?

Il punto di vista dell’autore filtra in modo soggettivo, grazie alla forma diaristica con cui sono raccontate le giornate di Serafino; esso avviene, tuttavia, con fluidità e discontinuità, infatti l’autore lascia ampi spazi all’analisi dei sentimenti, osservati con impassibilità. Questa è il riflesso dell’alienazione della società moderna, che impedisce ogni empatia tra esseri umani, una metafora della condizione che l’intellettuale si trova a vivere come una condanna o un martirio.

§ 2.

Sodisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.

Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!

All’inizio del secondo capitolo il protagonista rivela di essere l’autore del testo. La scrittura assume il valore di vendetta nei confronti della spersonalizzazione operata dalla macchina e dalla società meccanica che è creata.

L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.

Viva la Macchina che meccanizza la vita!

Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare.

Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?

È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.

La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno d’ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli su, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. […]

I Quaderni rovesciano il mito futurista della macchina, rappresentando in maniera gorttesca e paradossale lo sminuzzamento consumistico e standardizzato dell’anima. Le invenzioni tecnologiche svelano una degenerazione della vita umana, indebolendone le facoltà più profonde con le forme alienanti dei ritmi della società industriale. L’esistenza dell’uomo contemporaneo è resa artificiale e inautentica dalle macchine, dall’automazione del lavoro e della cultura.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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