Lo “strappo nel cielo di carta”
Il fu Mattia Pascal, capitolo 12
Mattia Pascal è un bibliotecario che vive a Miragno con una moglie che lo detesta e la suocera. Un giorno, esasperato dalle costrizioni familiari, fugge di casa e si trova — senza sapere come — a Montecarlo, dove vince una considerevole cifra al casino. Ritornando a casa legge la notizia della sua morte, perciò ne approfitta per fuggire dalla quotidianità opprimente. Adotta il nome di Adriano Meis e inizia a vagabondare tra Italia e Germania. Fatti i conti con il denaro rimastogli, si rende conto di non poter proseguire a lungo in una vita spensierata, perciò per risparmiare decide di stabilirsi in un luogo dove nessuno lo conosce. Dunque Mattia Pascal, nella nuova identità di Adriano Meis, si trasferisce a Roma, dove vive a pensione presso la famiglia di Anselmo Paleari, un funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione, mandato in pensione per le sue stranezze, che ama intrattenere il suo ospite enunciando bizzarre teorie filosofiche.
— La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! — venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. — Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.
— La tragedia d’Oreste?
La tragedia citata è l’Elettra di Sofocle. La protagonista assiste all’uccisione del padre Agamennone da parte della madre Clitemnestra e del suo amante Egisto; toccherà al fratello Oreste vendicare il genitore, uccidendo i due assassini.
La rappresentazione della tragedia in un teatrino di marionette richiama la commedia della vita, nel corso della quale gli esseri umani recitano inconsapevolmente una parte che gli è stata assegnata dal caso o dal destino.
— Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
— Non saprei, — risposi, stringendomi ne le spalle.
— Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
— E perché?
— Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
Amleto, protagonista della tragedia di Shakespeare — come Oreste — sa che il padre è stato ucciso a tradimento , ma non si decide mai a vendicarlo ed è afflitto da infiniti dubbi; compirà la sua vendetta solo alla fine del dramma, costretto dagli eventi.
Lo strappo nel cielo di carta rappresenta l’evento casuale, l’incidente minino che dimostra l’illusorietà e l’insensatezza della vita umana. Questo evento è direttamente collegato dal Paleari alla “differenza … fra la tragedia antica e moderna”: la metafora allude al fatto che i saldi punti di riferimento religiosi, ideali, morali che caratterizzavano il mondo antico sono caduti, e il cielo che sovrasta l’uomo moderno è strappato, svuotato dai presupposti metafisici e dai valori assoluti che davano senso alla vita. La scoperta dell’assenza di principi e di finalità dell’esistenza trasformano il deciso Oreste nel dubbioso Amleto. L’uomo contemporaneo non può più assomigliare a un eroe come Oreste, che era sostenuto da un saldo sistema di certezze nel compimento della sua vendetta, ma assomiglia piuttosto ad Amleto, individuo problematico e contraddittorio, pieno di dubbi, inquietudini e oscillazioni.
E se ne andò, ciabattando.
Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa.
Il discorso è buttato lì, quasi per caso dal vecchio Anselmo, che poi se ne va ciabattando per i fatti suoi. Queste affermazioni enunciano in maniera sintetica un tema centrale del romanzo e dell’opera pirandelliana in generale. Lo strappo è un’ipotesi del Paleari, un uomo che ragiona al di fuori degli schemi ed è escluso dalla vita produttiva e sociale, perché è strambo, un po’ folle; ma — come in altre opere di Pirandello — il folle è colui che vede oltre le apparenze, è l’umorista che indaga e svela l’assurdità della forma.
L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le marionette,» sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.
L’uomo contemporaneo, divenuto consapevole della finzione in cui vive, non rimane disorientato perché il casuale strappo ha rivelato la finzione del sistema di valori su cui ha poggiato la sua vita. Oltre il velo fragile del cielo di carta non si vede altro che il vuoto, non esistono più criteri morali, doveri e finalità che giustificano l’azione dell’uomo. Lo svuotamento del cielo determina la crisi dell’eroe: parafrasando Nietzsche si può affermare che la morte di Dio porta con sé la morte dell’uomo, o la paralisi della sua volontà.
Le parole del Paleari portano il protagonista narratore a considerare la crisi morale della modernità come causa del suo smarrimento e perdita dell’identità, da cui deriva la nostalgia per la beata illusione del passato, quando l’uomo pensava che la vita avesse un senso nell’orizzonte limitato del teatrino delle marionette.