Lo zio acquatico
Italo Calvino, Le cosmocomiche
Nel 1965 esce la raccolta di racconti Le cosmicomiche. In quest’opera Italo Calvino unisce i suoi interessi scientifici a quelli letterari, accomunati da un problema di fondo: il bisogno inesausto dell’uomo di conoscere e comprendere il mondo. Il titolo mostra la capacità dell’autore di sintetizzare due generi letterari, affiancando al racconto fantascientifico la prospettiva comica.
I primi vertebrati che nel Carbonifero lasciarono la vita acquatica per quella terrestre, derivavano dai pesci ossei polmonati le cui pinne potevano essere ruotate sotto il corpo e usate come zampe sulla terra.
Le righe poste come preambolo a ogni racconto sono tratte da testi scientifici cui l’autore si è ispirato; servono da impulso alla narrazione e, allo stesso tempo, da sommario di quanto verrà raccontato in seguito. In questo caso l’incipit fa riferimento al periodo geologico del Carbonifero, in cui i primi essere vertebrati, abbandonata la vita nell’acqua, iniziano a popolare la terra. Riconducendo la biologia a dimensioni domestiche il narratore racconta, apparentemente, una vicenda di scontro generazionale tra uno zio, vecchio e bisbetico, che ancora vive come un pesce, e i nipoti che invece hanno guadagnato la terra.
Ormai era chiaro che i tempi dell’acqua erano finiti, — ricordò il vecchio Qfwfq, — quelli che si decidevano a fare il grande passo erano sempre in maggior numero, non c’era famiglia che non avesse qualcuno dei suoi cari là all’asciutto, tutti raccontavano cose straordinarie di quel che c’era da fare in terraferma, e chiamavano i parenti. Ormai i pesci giovani non li teneva piú nessuno, sbattevano le pinne sulle rive di fango per vedere se funzionavano da zampe, com’era riuscito ai piú dotati. Ma proprio in quei tempi s’accentuavano le differenze tra noi: c’era la famiglia che viveva a terra da piú generazioni, e i cui giovani ostentavano maniere che non erano nemmeno piú da anfibi ma già quasi da rettili; e c’era chi s’attardava ancora a fare il pesce, anzi, diventava piú pesce di quanto non si usasse essere pesci una volta.
Qfwfq si chiede se l’evoluzione procede verso la perfezione, la prima parte del racconta pare confermarla: il vecchio zio è definito un avanzo del passato ed è presentato come un vero e proprio mostro mentre le nuove generazioni hanno migliorato la propria esistenza spostandosi sulla terraferma.
La nostra famiglia, devo dire, nonni in testa, zampettava sulla spiaggia al completo, come non avessimo mai conosciuto altra vocazione. Non fosse stato per l’ostinazione del prozio N’ba N’ga, i contatti col mondo acquatico sarebbero stati perduti da un pezzo. Sí, avevamo un prozio pesce, e precisamente dalla parte di mia nonna paterna, nata dei Celacanti del Devoniano (quelli d’acqua dolce: che poi resterebbero cugini di quegli altri — ma non voglio dilungarmi sui gradi di parentela, tanto nessuno riesce mai a seguirli). Dunque questo prozio abitava in certe acque basse e limacciose, tra radici di protoconifere, in quel braccio di laguna dov’erano nati tutti i nostri vecchi. Non si muoveva mai di là: in qualsiasi stagione bastava spingerci sugli strati di vegetazione piú molli fin che non ci si sentiva sprofondare nel bagnato, e là sotto, a pochi palmi dall’orlo, vedevamo la colonna di bollicine che lui mandava su sbuffando, come fanno gli individui d’età, o la nuvoletta di fango raspata dal suo muso aguzzo, sempre lí a frugare piú per abitudine che per cercar qualcosa.
Zio N’ba N’ga! Siamo venuti a trovarla! Ci aspettava? — gridavamo, sguazzando nell’acqua zampe e coda per richiamare la sua attenzione. — Le abbiamo portato degli insetti nuovi che crescono da noi! Zio N’ba N’ga! Ne aveva mai viste, di blatte cosí grosse? Assaggi se le piacciono…
- Potete pulirvici quelle verruche schifose che avete addosso, con le vostre blatte puzzolenti! — La risposta del prozio era sempre una frase di questo genere, o magari piú villana ancora: ci accoglieva cosí ogni volta, ma non ci facevamo caso perché sapevamo che dopo un po’ finiva per rabbonirsi, gradire i doni, e conversare in toni piú garbati.
- Ma che verruche, zio N’ba N’ga? Quando mai ci ha visto addosso una verruca?
Questo delle verruche era un pregiudizio dei vecchi pesci: che a noi, a vivere all’asciutto, ci venissero tante verruche su tutto il corpo, trasudanti roba liquida; il che era vero sí, ma solo per i rospi, che con noi non avevano nulla da spartire; al contrario, la nostra pelle era liscia e sgusciante come nessun pesce l’aveva mai avuta; e il prozio lo sapeva bene, però non rinunciava a imbastire i suoi discorsi di tutte le calunnie e le prevenzioni in mezzo alle quali era cresciuto.
Andavamo a fare visita al prozio una volta all’anno, tutta la famiglia insieme. Era anche un’occasione per ritrovarci tra noi, sparpagliati com’eravamo nel continente, scambiarci notizie e insetti mangerecci, e discutere vecchie faccende d’interessi rimaste in sospeso.
Escluse le parti più propriamente descrittive, il racconto è basato sull’alternarsi di momenti dialogici e di pause di riflessione condotte da Qfwfq tra sé e sé. I dialoghi sono a tratti bruschi e pungenti, soprattutto quando si tratta di botta e risposta tra lo zio e il protagonista (ad es. Potete pulirvici quelle verruche schifose che avete addosso, con le vostre blatte puzzolenti!). La prosa diventa più distesa nei monologhi interiori di Qfwfq, nei quali il tono si fa più serio e viene interpretato il senso dei gesti e delle parole dei personaggi.
Il prozio interloquiva anche in questioni lontane da lui chilometri e chilometri di terra secca, come sarebbe la spartizione delle zone per la caccia alle libellule, e dava ragione agli uni o agli altri secondo criteri suoi, che erano sempre quelli acquatici. — Ma non lo sai che chi caccia sul fondo è sempre in vantaggio su chi caccia a galla? Cos’hai da far tanto l’angoscioso, allora?
- Ma zio, veda, non è questione di galla o di fondo: io sto al piede della collina e lui a mezza costa… Le colline, ha presente, zio…
E lui: — Al piede degli scogli c’è sempre i gamberi migliori -. Non
c’era verso di fargli accettare per possibile una realtà diversa dalla sua.
Eppure, il suo giudizio continuava ad avere un’autorità su tutti noi: finivamo per chiedergli consiglio su fatti di cui non capiva niente, benché sapessimo che poteva avere torto marcio. Forse la sua autorità gli veniva proprio dall’essere un avanzo del passato, dall’usare vecchi modi di dire, tipo: — E cala un po’ le pinne, bravo! — di cui noi non comprendevamo neppur piú bene il significato. Tentativi di portarlo a terra con noi ne avevamo fatti parecchi, e continuavamo a farne; anzi, su questo punto non s’era mai spenta la rivalità tra i vari rami della famiglia, perché chi fosse riuscito a portare il prozio a casa propria si sarebbe trovato in una posizione diciamo preminente rispetto a tutto il parentado. Ma era una rivalità inutile, perché il prozio non si sognava di lasciare la laguna.
- Zio, alla bella età che ha, sapesse quanto ci dispiace lasciarla cosí sempre da solo, in mezzo all’umido… A noi, sa, è venuta un’idea… — attaccavamo.
- Me l’aspettavo che l’avreste capita, — interrompeva il vecchio pesce, — ormai il gusto di sguazzare nel secco ve lo siete tolto, è giusto l’ora che torniate a vivere come esseri normali. Qui c’è acqua per tutti, e quanto al mangiare, la stagione dei lombrichi non è mai stata cosí buona. Potete buttarvi a bagno bell’e ora e non se ne parli piú.
- Ma no, zio N’ba N’ga, cos’ha capito? Noi si voleva portarla a star con noi, in un bel praticello… Vedrà che ci si trova bene, le scaviamo una fossetta umida, fresca: lei ci si rigira come vuole tal quale a qui; potrà anche provare a fare qualche passo intorno, vedrà che ci riesce. E poi alla sua età il clima di terra è piú indicato.
Dunque, zio N’ba N’ga, non si faccia piú pregare: viene?
- No! — era la risposta secca del prozio, e con una nasata in acqua scompariva dalla nostra vista.
- Ma perché mai, zio, cos’ha contro, non comprendiamo, lei così largo di vedute, certi preconcetti…
In uno sbuffo a fior d’acqua, prima d’inabissarsi con un colpo ancor agile di coda, ci veniva l’ultima risposta del prozio: — Nuota a pancia nel fango chi ci ha pulci tra le squame! — che doveva essere un modo di dire dei suoi tempi (sul tipo del nostro proverbio nuovo, e molto piú rapido: «Chi ha prurito si gratti»), con quell’espressione «fango» che lui continuava a usare per tutte le occasioni in cui noi dicevamo: «terra».
Il persoanggio di Lll rappresenta il balzo evolutivo; Lll è caratterizzata da una bellezza e da una grazia che è evidente nei modi raffinati che provengono dall’educazione familiare. Infatti l’ingenuo Qfwfq se ne innamora perdutamente.
Fu in quell’epoca che io m’innamorai. Passavo le giornate con Lll, rincorrendoci; agile come lei non s’era vista mai nessuna; sulle felci, che a quel tempo erano alte come alberi, saliva fino in cima di slancio, e le cime s’inchinavano fin quasi al suolo, e lei saltava giú e riprendeva la sua corsa; io, con movimenti un po’ piú tardi e goffi, la seguivo. Ci inoltravamo in territori dell’interno dove mai nessuna impronta aveva marcato il suolo secco e crostoso; alle volte m’arrestavo spaventato d’essermi tanto allontanato dalla distesa delle lagune. Ma nulla pareva lontano dalla vita acquatica quanto lei, Lll: i deserti di sabbia e pietre, le praterie, il folto delle foreste, i rilievi rocciosi, le montagne di quarzo, questo era il suo mondo: un mondo che pareva fatto apposta per essere scrutato dai suoi occhi oblunghi e percorso dal suo passo guizzante. Guardando la sua pelle liscia pareva che non fossero mai esistite scaglie e squame.
I parenti di Lll mi davano un po’ di soggezione: erano una di quelle famiglie che per essersi stabilite a terra in epoca piú antica avevano finito per convincersi di stare qui da sempre; una di quelle famiglie in cui ormai anche le uova venivano deposte all’asciutto, protette da un guscio resistente; e Lll, a guardarla nei suoi scatti, nelle sue mosse saettanti, si capiva che era nata tal quale a ora, da una di quelle uova calde di sabbia e di sole, saltando a piè pari la fase natante e ciondolona del girino, ancora d’obbligo nelle nostre famiglie meno evolute.
Era venuto il momento che Lll conoscesse i miei: e il piú anziano e autorevole della famiglia essendo il prozio N’ba N’ga, non potevo mancare di fargli una visita per presentargli la mia fidanzata. Ma tutte le volte che capitava un’occasione, rimandavo pieno d’imbarazzo: conoscendo i pregiudizi in cui lei era stata allevata, non avevo ancora osato dire a Lll che il mio prozio era un pesce. Un giorno ci eravamo inoltrati in uno di quei fradici promontori che cingono la laguna, dove il suolo piú che di sabbia è fatto di grovigli di radici e vegetazione marcita. E Lll mi propose una delle solite sue sfide o prove di bravura: — Qfwfq, fin dove sei buono a tenere l’equilibrio? Facciamo a chi corre piú sull’orlo! — e si lanciò avanti col suo saltello da terraferma, ma un po’ esitante. Stavolta mi sentivo non solo d’emularla, ma di vincerla, perché sull’umido le mie zampe avevano piú presa. — Fin sull’orlo quanto vuoi! — esclamai, — e magari anche al di là!
- Non dire stupidaggini! — fece lei. — Al di là dell’orlo come si fa a correre? C’è l’acqua!
Forse era il momento favorevole per portare il discorso sul prozio. — E con ciò? — le dissi. — C’è chi corre di là dell’orlo e chi di qua.
- Dici delle cose senza capo né coda!
- Dico che il mio prozio N’ba N’ga sta nell’acqua come noi in terra, e non ne è mai uscito!
- Bum! Vorrei proprio conoscerlo questo N’ba N’ga!
Non aveva finito di dirlo e la torbida superficie della laguna gorgogliò di bollicine, si mosse un poco a vortice e lasciò affiorare un muso tutto ricoperto di squame spinose.
- Be’: sono io, che c’è? — disse il prozio, fissando Lll con occhi tondi e inespressivi come pietre e facendo pulsare le branchie ai lati dell’enorme gola. Mai il prozio m’era parso cosí diverso da noi: un vero e proprio mostro.
- Zio, se permette, questa… vorrei avere il piacere appunto di farle conoscere… la mia promessa sposa Lll, — e indicai la mia fidanzata che chissà perché s’era messa ritta sulle zampe di dietro, in uno dei suoi atteggiamenti piú ricercati e certamente meno apprezzabili da quel vecchio zoticone.
- E cosí bel bello, signorina, è venuta a bagnarsi un po’ la coda? - fece il prozio, una battuta che ai suoi tempi sarà magari stata una galanteria, ma a noi suonava addirittura indecente.
Guardai Lll, sicuro di vederla voltarsi e scappar via con uno squittio scandalizzato. Ma non avevo calcolato quanto forte fosse in lei l’educazione a ignorare ogni volgarità del mondo circostante. — Senta, quelle piantine là, — fa, disinvolta, e indica certe giuncacee che crescevano gigantesche in mezzo alla laguna, — le radici, mi dica, dov’è che le affondano?
Una domanda di quelle che si fanno tanto per tener su la conversazione; figuriamoci cosa importava a lei delle giuncacee! Ma il prozio pareva che non aspettasse altro per mettersi a spiegare il perché e il percome delle radici degli alberi galleggianti e di come ci si poteva nuotare in mezzo, anzi: i posti piú indicati per la caccia erano lí sotto.
Non la finiva piú. Io sbuffavo, cercavo d’interromperlo. Ma quella impertinente invece che fa? Non si mette a dargli corda? — Ah sí, lei
va a caccia tra le radici natanti? Interessante!
Io sprofondavo dalla vergogna.
E lui: — Mica storie: i lombrichi che c’è lí, roba da farci delle scorpacciate! — E, senza starci a pensare, si tuffa. Un tuffo agile come mai gliene avevo visto fare; anzi, un salto in alto: balza fuori dell’acqua quant’è lungo, tutto maculato sulle squame, divaricando i ventagli spinosi delle pinne; poi, descritto in aria un bel semicerchio, ripiomba a immergersi testa avanti, e scompare rapido con una specie di movimento a vite della coda falcata.
A questa vista, il discorsetto che m’ero preparato per giustificarmi in fretta con Lll approfittando dell’allontanamento del prozio: «Sai, bisogna capirlo, con questa idea fissa di vivere come un pesce, ha finito per assomigliare a un pesce davvero…» mi si smorzò in gola. Neanch’io m’ero mai reso conto fino a che punto fosse pesce il fratello di mia nonna. Dissi appena: — Lll, è tardi, andiamo… - e già il prozio riemergeva reggendo tra le sue labbra da squalo un festone di lombrichi e alghe fangose.
Non mi pareva vero, quando ci accommiatammo; ma trottando zitto dietro a Lll pensavo che ora lei avrebbe cominciato a fare i suoi commenti, cioè che il peggio per me doveva ancor venire. Ed ecco Lll, senza fermarsi, si volta appena verso di me, e: — Però, simpatico, tuo zio! — Questo, dice, e nient’altro. Di fronte alla sua ironia, già piú d’una volta m’ero trovato disarmato; ma il gelo che mi colse a questa battuta fu tale che avrei preferito non rivederla piú piuttosto che dover riaffrontare l’argomento.
Invece continuammo a vederci, a andare insieme, e non si parlò piú dell’episodio della laguna. Io restavo insicuro: avevo un bel cercare di convincermi che se ne fosse dimenticata; ogni tanto mi prendeva il sospetto che tacesse per potermi svergognare in qualche modo clamoroso, davanti ai suoi, oppure — e questa era per me un’ipotesi ancor peggiore — che soltanto per compassione si studiasse di parlare d’altro. Finché, di punto in bianco, un bel mattino, non uscí a dire:
- Ma senti, da tuo zio non mi ci porti piú?
Con un filo di voce chiesi: — … Scherzi?
Macché: diceva sul serio, non vedeva l’ora di tornare a far quattro chiacchiere col vecchio N’ba N’ga. Io non ci capivo piú niente.
Quella volta la visita alla laguna fu piú lunga. Ci sdraiammo su una riva in declivio tutti e tre: il prozio piú dalla parte dell’acqua, ma anche noi mezzo a bagno, cosicché a vederci da lontano, allungati vicini, non si sarebbe capito chi era terrestre e chi acquatico.
Il pesce attaccò una solfa delle solite: la superiorità della respirazione ad acqua su quella aerea, con tutto il repertorio delle sue denigrazioni. «Adesso Lll salta su e gli risponde per le rime!» pensavo. Invece si vede che quel giorno Lll usava un’altra tattica: discuteva con impegno, difendendo i nostri punti di vista, ma come se prendesse molto sul serio quelli del vecchio N’ba N’ga.
Le terre emerse, secondo il prozio, erano un fenomeno limitato: sarebbero scomparse com’eran saltate fuori, o, comunque, sarebbero state soggette a continui cambiamenti: vulcani, glaciazioni, terremoti, corrugamenti, mutamenti di clima e di vegetazione. E la nostra vita là in mezzo avrebbe dovuto affrontare trasformazioni continue, attraverso le quali intere popolazioni sarebbero scomparse, e sarebbe potuto sopravvivere solo chi era disposto a cambiare talmente le basi della propria esistenza, che le ragioni per cui era bello vivere sarebbero state completamente sconvolte e dimenticate. Una prospettiva che faceva a pugni con l’ottimismo in cui noi figli della costa eravamo stati allevati; e alla quale io ribattevo con proteste scandalizzate. Ma per me la vera, vivente confutazione di quegli argomenti era Lll: vedevo in lei la forma perfetta, definitiva, nata dalla conquista dei territori emersi, la somma delle nuove illimitate capacità che si aprivano. Come poteva pretendere, il prozio, di negare la realtà incarnata di Lll? Fiammeggiavo di passione polemica, e mi pareva che la mia compagna si dimostrasse fin troppo paziente e comprensiva col nostro contraddittore.
Certo, anche per me — abituato com’ero a sentire dalla bocca del prozio solo bofonchiamenti e improperi — questo suo argomentare cosí filato suonava come una novità, se pur condito d’espressioni antiquate ed enfatiche, e reso buffo dalla sua caratteristica cadenza. Stupiva anche sentirlo dar prova d’una competenza minuziosa — per quanto tutta esterna — delle terre continentali.
Ma Lll, con le sue domande, cercava di farlo parlare il piú possibile della vita sott’acqua: e certo questo era il tema sul quale il discorso del prozio si faceva piú serrato, ed a tratti commosso.
In confronto alle incertezze della terra e dell’aria, lagune e mari e oceani rappresentavano un futuro di sicurezza. Là i cambiamenti sarebbero stati minimi, gli spazi e le provvigioni senza limiti, la temperatura avrebbe sempre trovato il suo equilibrio, insomma la vita si sarebbe conservata cosí come s’era svolta fin qui, nelle sue forme piene e perfette, senza metamorfosi o aggiunte di dubbio esito, e ognuno avrebbe potuto approfondire la propria natura, arrivare all’essenza di sé e di ogni cosa. Il prozio parlava dell’avvenire acquatico senza abbellimenti o illusioni, non si nascondeva i problemi anche gravi che si sarebbero presentati (piú preoccupante di tutti l’aumento della salinità); ma erano problemi che non avrebbero sconvolto i valori e le proporzioni in cui egli credeva.
Lo stile delle Cosmocomiche é una conseguenza della scelta di ripetere, in chiave moderna e ironica, le grandi narrazioni dei miti delle origini. La narrazione mitologica riconduce ogni concetto e ogni ragionamento a una verità unica e incontestabile, invece le Cosmocomiche frantumano le certezze mitologiche attraverso lo spassoso accostamento del linguaggio quotidiano e di quello scientifico e la mescolanza di classificazione scientifica e percezione comune. Si ottiene così una prosa che non eccede in tecnicismi — i quali risaltano come estranei nella narrazione — e che anzi ricorre ironicamente alle frasi fatte della lingua parlata.
- Ma noi ora galoppiamo per vallate e montagne, zio! — esclamai, a nome mio e soprattutto di Lll, che invece stava zitta.
- Va’ là, girino, che appena torni a bagno torni a casa! — m’apostrofò lui, riprendendo il tono che gli avevo sempre sentito usare con noi.
- Non crede, zio, che se noi volessimo imparare a respirare sott’acqua ora sarebbe troppo tardi? — chiese Lll, seria, e io non sapevo se sentirmi lusingato perché aveva chiamato zio il mio vecchio parente o disorientato perché certe questioni (almeno, cosí ero abituato a pensare io) non si ponevano neppure.
- Se ci stai, stella, — fece il pesce, — ti ci insegno subito!
Lll uscí in una risata strana e finalmente si mise a correre, a correre da non poterle tener dietro.
La cercai per pianure e colline, giunsi in cima a uno sperone di basalto che dominava intorno il paesaggio di deserti e foreste circondato dalle acque. Lll era lí. Era certo questo che aveva voluto dirmi — io l’avevo capito! — col suo ascoltare N’ba N’ga e poi col suo fuggire e rifugiarsi lassú: che bisognava stare nel nostro mondo con la stessa forza con cui il vecchio pesce stava nel suo.
- Io sarò per qua come lo zio per là, — gridai, un po’ farfugliando, poi mi corressi: — Noi due, saremo, insieme! — perché era vero che senza di lei non mi sentivo sicuro.
E Lll allora, cosa mi rispose? Ancora adesso arrossisco a ricordarlo, a distanza di tante ere geologiche. Rispose: — Va’ là, girino, ci vuol altro! — e non sapevo se voleva fare il verso al prozio, per canzonare lui e me insieme, o se davvero aveva fatto suo l’atteggiamento di quel vecchio bacucco verso il pronipote, e l’una e l’altra ipotesi erano ugualmente scoraggianti, perché entrambe significavano che mi considerava uno a metà strada, uno che non era nel suo né in un mondo né nell’altro.
L’avevo perduta? Nel dubbio, mi precipitai a riconquistarla. Presi a compiere prodezze: nella caccia agli insetti volanti, nel salto, nello scavare tane sotterranee, nella lotta coi piú forti dei nostri.
Ero fiero di me stesso, ma purtroppo ogni volta che facevo qualcosa di valoroso, lei non era lí a vedermi: spariva continuamente, non si sapeva dove andasse a nascondersi.
Finalmente capii: andava alla laguna dove il prozio le insegnava a nuotare sott’acqua. Li vidi affiorare insieme: filavano a pari velocità, da sembrare fratello e sorella.
- Sai, — fece lei, allegra, vedendomi, — le zampe funzionano benissimo da pinne!
- E brava: guarda che bel passo avanti, — non potei fare a meno di commentare, con sarcasmo.
Era un gioco, per lei, lo capivo. Ma un gioco che non mi piaceva. Dovevo richiamarla alla realtà, al futuro che ci attendeva.
Un giorno la aspettai in mezzo a un bosco di alte felci, che scoscendeva sull’acqua.
- Lll, ho da parlarti, — dissi appena la vidi, — adesso ti sei divertita abbastanza. Abbiamo cose piú importanti davanti a noi. Ho scoperto un passaggio nella catena dei monti: di là s’estende un’immensa pianura di pietra, abbandonata da poco dalle acque. Saremo i primi a stabilirci là, popoleremo territori sconfinati, noi e i nostri figli.
- Il mare, è sconfinato, — disse Lll.
- Smettila di ripetere le fandonie di quel vecchio rimbambito. Il mondo è di chi ha gambe, non dei pesci, lo sai.
- So che lui è uno che è uno, — disse Lll.
- E io?
- Nessuno c’è di quelli con le gambe che sia uno come lui.
- E la tua famiglia?
- Ci ho litigato. Non hanno mai capito niente.
- Ma sei matta! Non si può mica tornare indietro!
- Io sí.
- E cosa vuoi fare, tu sola con un vecchio pesce?
- Sposarlo. Tornare pesce con lui. E mettere al mondo altri pesci. Addio.
E, con un’ultima arrampicata delle sue, salí fino in cima a un’alta foglia di felce, l’inclinò verso la laguna, e si lasciò andare in un tuffo. Riemerse, ma non era sola: la robusta coda falcata del prozio N’ba N’ga affiorò vicino alla sua e insieme fendettero le acque.
In realtà l’intero racconto é costruito in modo da deludere l’orizzonte di attesa di Qfwq e, con esso, quello del lettore. Le convinzioni del protagonista circa u disegno armonico del ritmo evolutivo (gli esseri viventi devono passare dall’acqua alla terra) è incrinato proprio da Lll, che, mandando in frantumi la cristallina geometria del progresso, mostra chiaramente come l’evoluzione non presenti uno sviluppo univoco e lineare. La sua decisione di sposare il vecchio zio per tornare pesce vanifica l’illusione che la vita — e dunque l’umanità — percorrano un itinerario continuo verso la sicurezza e la felicità.
Fu una batosta dura per me. Ma poi, che farci? Continuai la mia strada, in mezzo alle trasformazioni del mondo, anch’io trasformandomi. Ogni tanto, tra le tante forme degli esseri viventi, incontravo qualcuno che «era uno» piú di quanto io non lo fossi: uno che annunciava il futuro, ornitorinco che allatta il piccolo uscito dall’uovo, giraffa allampanata in mezzo alla vegetazione ancora bassa; o uno che testimoniava un passato senza ritorno, dinosauro superstite dopo ch’era cominciato il Cenozoico, oppure — coccodrillo - un passato che aveva trovato il modo di conservarsi immobile nei secoli. Tutti costoro avevano qualcosa, lo so, che li rendeva in qualche modo superiori a me, sublimi, e che rendeva me, in confronto a loro, mediocre. Eppure non mi sarei cambiato con nessuno di loro.