L’ordine nella casualità
La letteratura combinatoria
Calvino sperimenta la letteratura combinatoria in quanto costruisce una storia, giocando con i possibili incastri e intrecci tra nuclei narrativi. Infatti Il castello dei destini incrociati è costruito sulla “rete dei possibili”, quindi esprime “una poetica che s’affida al puzzle per esprimere il senso di un tempo plurimo e ramificato.Così può essere definita la scrittura del Calvino che si cimenta nei più sofisticati modelli combinatori per cercare di dedurne lo schema che riesca a ricollegare il senso delle parole alla materia delle cose.
Il lettore si trova di fronte a una scrittura composta da una cornice che tiene insieme tanti piccoli quadri, racconti e “poesie” , tessere di un mosaico che si rivela leggibile secondo strategie e percorsi differenti.
Calvino, dunque, parte da un’idea limitata del mondo per cercare combinazioni con altri segni alla ricerca di un significato nel complesso disordine del reale.
Il castello dei destini incrociati
Il castello dei destini incrociati illustra una sorta di cruciverba all’interno del quale vengono collocate le carte dei tarocchi, le cui differenti combinazioni producono di volta in volta una storia nuova. La cornice, in cui a parlare è la voce di un anonimo viaggiatore, è costituita dal ritrovo, in un castello e in una taverna, di alcuni ospiti che, non potendo proferire parola, raccontano la propria storia ricorrendo alle immagini raffigurate sulle carte.
In un fantastico Rinascimento un personaggio — Calvino stesso — si trova a cena con altri 15 commensali, ma ognuno può raccontare la propria vita solo per mezzo dei tarocchi; comunque tutti hanno voglia di raccontare cosa li ha spinti ad arrivare in quel luogo magico e quali sono i reali motivi che li hanno condotti alla loro conseguente rovina o alla loro felicità. Così, finito il pasto, un commensale si alza e prende un mazzo di tarocchi ed inizia a narrare la sua storia disponendo una carta dopo l’altra, in modo da formare un racconto della sua vita. Ogni personaggio sceglie un tema e dispone una carta sul tavolo per raccontarsi. Il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono. Il romanzo è quindi un insieme dei racconti, precisamente sedici, di tutti i commensali del castello. Il castello dei destini incrociati rappresenta un esperimento di grande originalità, perché le storie devono incastrarsi le une nelle altre. Calvino costruisce qui un romanzo innovativo basato sull’iconicità e l’arte combinatoria.
La storia di Astolfo sulla luna
Un gruppo di viaggiatori che, per un complesso di circostanze diverse, hanno perso la parola si ritrovano in un castello. L’unico mezzo che hanno per comunicare è rappresentato da un mazzo di tarocchi. Ogni narratore ha terminato il racconto della propria vita ponendo sul tavolo le carte dei tarocchi, che vengono così a costruire un mosaico di storie. Essendo questo l’ultimo racconto, è giocoforza che quasi tutte le carte siano già state usate e costituiscano un reticolo intimamente interconnesso.
Sul senno di Orlando mi sarebbe piaciuto raccogliere altre testimonianze, soprattutto da colui che del recupero s’era fatto un dovere, una prova per il suo ardire ingegnoso. Avrei voluto che fosse lì con noi, Astolfo. Tra i commensali che ancora non avevano raccontato nulla c’era un tipo leggero come un fantino o un folletto, che ogni tanto saltava su in guizzi e in trilli come se il mutismo suo e nostro fosse per lui un’occasione di divertimento senza pari. Osservandolo m’accorsi che poteva ben essere lui, il cavaliere inglese, e lo invitai esplicitamente a raccontare porgendogli la figura del mazzo che più mi pareva somigliargli: l’ilare impennata del Cavaliere di Bastoni. Quel tipetto sorridente avanzò una mano, ma invece di prendere la carta la fece volare con uno scatto dell’indice sul pollice. Ondeggiò come una foglia al vento e si posò sul tavolo verso la base del quadrato.
Ora non c’erano più finestre aperte nel centro del mosaico; e poche carte restavano fuori dal gioco.
Le carte disposte in quadrato costruiscono la storia; il racconto segue l’interpretazione che il narratore dà alle carte, ricostruendo così la storia di Astolfo. I tarocchi sono usati per predire il futuro, ma la loro interpretazione è soggettiva non esiste una trama, ma ognuno può raccontare la storia che vuole partendo dagli stessi elementi.
Il cavaliere inglese prese un Asso di Spade, (riconobbi la Durlindana d’Orlando rimasta inoperosa appesa a un albero…), l’avvicinò al punto in cui era L’Imperatore (raffigurato con la barba bianca e la fiorita saggezza di Carlo Magno in trono…), come accingendosi a risalire con la sua storia una colonna verticale: Asso di Spade, Imperatore, Nove di Coppe… (Prolungandosi l’assenza d’Orlando dal Campo Franco, Astolfo fu chiamato da Re Carlo e invitato a sedere a banchetto con lui…) Poi venivano Il Matto mezzo straccione e mezzo ignudo con le penne sul capo, e L’Amore dio alato che dal piedestallo tortile dardeggia gli spasimanti.
Il romanzo è iconico, infatti le immagini guidano la narrazione seguendo una struttura a incastro dominata dal caso. Il testo tenta di mescolare parole e immagini anche graficamente (nel libro le pagine riproducono i tarocchi, che assumono una funzione complementare rispetto al testo); le riproduzioni dei tarocchi corredano il testo dando un supporto iconografico al racconto che si dipana partendo dalla descrizione e interpretazione delle carte.
(«Tu certo, Astolfo, sai che il principe dei nostri paladini, Orlando nostro nipote, ha perso il lume che distingue l’uomo e le bestie savie dalle bestie e dagli uomini matti, e adesso corre ossesso i boschi, e cosparso di penne d’uccelli risponde solo al pigolìo dei volatili come se altro linguaggio non intendesse. E manco male se a ridurlo in questo stato fosse un malinteso zelo nelle penitenze cristiane, nella umiliazione di sé, macerazione del corpo e castigo all’orgoglio della mente, perché in tal caso il danno potrebbe in qualche modo essere bilanciato da un vantaggio spirituale, o comunque sarebbe un fatto di cui potremmo non dico vantarcene ma parlarne in giro senza vergogna, magari scrollando solo un po’ il capo, ma il guaio è che alla pazzia lo ha spinto Eros, dio pagano, che più è represso più devasta…»)
La narrazione avviene su due piani: il primo piano di realtà, quello del narratore, che sceglie di volta in volta carte diverse carte diverse e le colloca sul tavolo; il secondo è il piano dell’allegoria, indicato tra parentesi. Ogni carta è interpretata secondo una storia che tale appare all’osservatore/narrante, e che costui sceglie di interpretare secondo la falsariga delle avventure ariostesche. Ma non è detto che il protagonista voglia comunicare davvero quel messaggio o quella storia.
La colonna continuava con Il Mondo, dove si vede una città fortificata con un cerchio intorno, — Parigi nella cerchia dei suoi baluardi, stretta da mesi nell’assedio saraceno, — e con La Torre, che rappresenta con verisimiglianza il precipitare dei cadaveri giù dagli spalti tra getti d’olio rovente e macchine d’assedio all’opera; e così descriveva la situazione militare (forse con le stesse parole di Carlo Magno: «Il nemico preme ai piedi delle alture di Monte Martire e di Mon Parnasso, apre brecce a Menilmontante e a Monteroglio, appicca incendi alla Porta Delfina e alla Porta dei Lillà…») cui non mancava che un’ultima carta, il Nove di Spade, per chiudersi su una nota di speranza, (così come il discorso dell’Imperatore non poteva avere altra conclusione che questa: «Solo nostro nipote potrebbe guidarci in una sortita che tagli il cerchio di ferro e di fuoco… Va’, Astolfo, rintraccia il senno d’Orlando, dovunque si sia perduto, e riportalo: è la sola nostra salvezza! Corri! Vola!»)
Cosa doveva fare Astolfo? Aveva in mano ancora una buona carta: l’arcano detto L’Eremita, qui rappresentato come un vecchio gobbo con la clessidra in mano, un indovino che rovescia il tempo irreversibile e prima del prima vede il dopo. È dunque a questo sapiente o magomerlino che Astolfo si rivolge per sapere dove ritrovare la ragione di Orlando. L’eremita leggeva lo scorrere dei grani di sabbia nella clessidra, e così noi ci accingevamo a leggere la seconda colonna della storia, che era quella immediatamente a sinistra, dall’alto in basso: Il Giudizio, Dieci di Coppe, Carro, Luna…
La riscrittura dell’Orlando furioso non è una semplice copiatura, ma una reinterpretazione di una storia già nota (perciò la narrazione diventa inutile) il poema è ripreso, attualizzato e reinterpretato. La luna diventa il luogo del ribaltamento della realtà (non più il luogo delle cose perdute); la guida di Astolfo è l’eremita (non san Giovanni battista), emblema del mondo carnevalesco dove i valori e le gerarchie sono rovesciate.
«È in cielo che tu devi salire, Astolfo,» (l’arcano angelico del Giudizio indicava un’ascensione sovrumana), «su nei campi pallidi della Luna, dove uno sterminato deposito conserva dentro ampolle messe in fila,» (come nella carta di Coppe), «le storie che gli uomini non vivono, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e svaniscono per sempre, le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva…»
Per salire sulla Luna, (l’arcano Il Carro ce ne dava superflua ma poetica notizia), è convenzione ricorrere alle ibride razze dei cavalli alati o Pegasi o Ippogrifi; le Fate li allevano nelle loro stalle dorate per aggiogarli a bighe e a trighe. Astolfo il suo Ippogrifo l’aveva e montò in sella. Prese il largo nel cielo. La Luna crescente gli venne incontro. Planò.
L’ironia, intesa come distacco critico, è qui particolarmente forte perché la distanza dal modello letterario è molto ampio. Calvino sa di raccontare una storia già nota (la sua narrazione è quindi superflua) dove le azioni avvengono per convenzione. Questo è uno dei motivi per cui si discosta dal modello ariostesco proponendo una sua personale interpretazione del mondo lunare.
(Nel tarocco, La Luna era dipinta con più dolcezza di come le notti di mezza estate rustici attori la rappresentino nel dramma di Piramo e Tisbe, ma con mezzi altrettanto semplici dall’allegoria…) Poi veniva La Ruota della Fortuna, giusto al punto in cui ci aspettavamo una descrizione più particolareggiata del mondo della Luna, che ci lasciasse sbizzarrire nelle vecchie fantasie d’un mondo all’incontrario, dove l’asino è re, l’uomo è quadrupede, i fanciulli governano gli anziani, le sonnambule reggono il timone, i cittadini vorticano come scoiattoli nel mulinello della gabbia, e quanti altri paradossi l’immaginazione può scomporre e ricomporre.
Astolfo era salito a cercare la Ragione nel mondo del gratuito, Cavaliere del Gratuito egli stesso. Quale saggezza trarre per norma della Terra da questa Luna del delirio dei poeti? Il cavaliere provò a porre la domanda al primo abitante che incontrò sulla Luna: il personaggio ritratto nell’arcano numero uno, Il Bagatto, nome e immagine di significato controverso ma che qui pure può intendersi — dal calamo che tiene in mano come se scrivesse — un poeta.
Sui bianchi campi della Luna, Astolfo incontra il poeta, intento a interpolare nel suo ordito le rime delle ottave, le fila degli intrecci, le ragioni e sragioni. Se costui abita nel bel mezzo della Luna, — o ne è abitato, come dal suo nucleo più profondo, — ci dirà se è vero che essa contiene il rimario universale delle parole e delle cose, se essa è il mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata.
Unico criterio che regna sulla luna è l’immaginazione, perciò il sovrano della luna è il bagatto/poeta (detta le regole e indica le verità di quel mondo), il quale — colto nell’atto di scrivere — afferma che la poesia nasce dal nulla e finisce nel nulla, ma rimane l’unico elemento presente sulla luna. Essere poeta significa avere un progetto, perché la letteratura anticipa la storia, infatti la poesia è il luogo del possibile e del gratuito.
«No, la Luna è un deserto,» questa era la risposta del poeta, a giudicare dall’ultima carta scesa sul tavolo: la calva circonferenza dell’Asso di Denari, «da questa sfera arida parte ogni discorso e ogni poema; e ogni viaggio attraverso foreste battaglie tesori banchetti alcove ci riporta qui, al centro d’un orizzonte vuoto.»
La luna è un deserto, un cerchio, o un circuito narrativo, da cui partono e approdano tutte le avventure e le storie. La poesia nasce dal vuoto e torna nel vuoto: è quel silenzio totale da cui ha origine ogni forma di ispirazione.