Luigi Pirandello

Forma e vita nella letteratura umoristica

Luca Pirola
12 min readDec 11, 2020

Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione — ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone di uomo — come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita. Quando tu riesci a non avere più un ideale, perché osservando la vita sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai […] allora tu non saprai che fare, sari un viandante senza una casa, un uccello senza un nido. Io sono così.

Con queste parole — scritte nel 1886 — Pirandello dà inizio al suo percorso poetico fondato sulla ricerca della vita la condizione vera dell’esistenza, nascosta sotto il dominio della forma, l’insieme delle costrizioni che regolano la nostra società. L’uomo in questa concezione perde di identità, si trova ridotto a “personaggio”, costretto a recitare un ruolo imposto da altri; oppure accetta a indossare una “maschera” che si costruisce addosso per essere adeguato alle convenzioni.

Il contrasto tra “forma” e “vita”

La crisi di valori del positivismo, che accompagna l’affermazione della società di massa e che caratterizza la cultura tra Ottocento e Novecento, porta alla crisi del primato della scienza e della razionalità come strumento di comprensione della realtà. Pirandello — come altri intellettuali — riflette sull’impossibilità di una conoscenza oggettiva della realtà, che induce a metter in dubbio il concetto stesso di realtà. Pirandello elabora una concezione relativistica del reale in cui appare evidente il contrasto tra forma (ciò che appare) e vita (ciò che è); la realtà è inconoscibile dall’uomo, perchè è un perenne mutare dominato dal caso.
Questo conflitto si evidenzia nell’individuo, che vive il contrasto tra ciò che sembra e ciò che afferma di essere; l’identità della persona non è univoca, perchè l’anima si muove, muta in un perenne divenire vitale. Anche nella società la contraddizione tra forma e vita si evidenzia nel contrasto tra le convenzioni sociali e le istituzioni storiche. L’arte, dunque, non può che rilevare questo contrasto, divenendo lo specchio per la vita. L’arte si esprime attraverso l’umorismo, parola che indica la capacità di cogliere le contraddizioni del reale; l’umorismo è “il sentimento del contrario, che scompone, disordina, discorda”.

L’arte umoristica

Nel saggio L’umorismo (parte seconda, capitolo 2) Pirandello spiega cosa intende con poetica dell’umorismo:

Nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira, ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.

Pirandello, dunque, dà grande importanza al momento della riflessione. Il momento della riflessione serve a passare dall’«avvertimento del contrario», proprio del comico, al «sentimento del contrario», proprio dell’umoristico. Grazie a tale sentimento, se si riflette sulle ragioni per cui una vecchia si imbelletta come se fosse una giovinetta, si può giungere a compatirla amaramente.
Pertanto l’atteggiamento dello scrittore umorista di fronte alle manifestazioni del reale deve essere teso a cogliere le contraddizioni dell’esistenza, perché deve descrivere il contrasto tra essere e apparire. Dunque, al contrario dello scrittore tradizionale che cerca di semplificare la rappresentazione della complessità del reale attraverso personaggi paradigmatici e vicende lineari, l’umorista privilegia delineando personaggi incoerenti, che enfatizzano le contraddizioni umane. Ogni individuo è colto come un essere in preda a pulsioni diverse e contrapposte, perciò lo scrittore umorista deve ricercare i particolari elementi dissonanti, per creare personaggi quotidiani, paradossali nella loro dimensione realistica.
L’arte svolge, così una funzione critica verso la realtà, perché mostra la contraddizione delle apparenze, cioè l’inconsistenza della realtà sensibile, rivelando la scomoda verità che si cela dietro le apparenze, ovverosia la vita dietro le forme.

Per raggiungere il suo scopo l’arte umoristica si oppone altre classica, romantica e decadente, perché non nasce dal rispetto delle regole della tradizione (come il classicismo), né è espressione immediata delle passioni e dei sentimenti umani (come il romanticismo), né infine è rivelatrice del significato misterioso delle cose (come il decadentismo).

L’arte umoristica deve vertere sulla riflessione, l’atteggiamento incline al ragionamento di chi ha capito che la vita è senza senso, quindi non può fare altro che riflettere ironicamente e «guardarsi vivere».
L’arte evidenzia la discordanza per mezzo di divagazioni che distruggono i sistemi del passato per dare vita a situazioni grottesche e ridicole, in cui si opera la «destituzione dell’io», cioè la perdita da parte del soggetto della propria integrità, perché animato da spinte contrarie e addirittura da diverse personalità.
Le opere umoristiche devono avere una struttura aperta e inconclusa, per significare che la vita non ha senso né ordine, «non conclude». Si esprime attraverso un linguaggio quotidiano, essendo l’unico strumento adeguato a comunicare una concezione della vita che non rivela nulla di essenziale. Il lessico, dunque, è crudelmente icastico, volutamente deformante per descrivere il lato grottesco e ironico dell’uomo moderno. La frammentazione della realtà sensibile si riscontra anche nella sintassi disarmonica, continuamente spezzata da parentesi e incisi. Con tali accorgimenti stilistici Pirandello esprime le situazioni di una realtà lacerata, perciò non descrivibile.

Le parole chiave della produzione letteraria di Pirandello sono

  • vita, ciò che è reale e vero e in continuo fluire, ma che resta inconoscibile all’uomo che si limita a percepire con i sensi.
  • forma, ciò che appare ai sensi, ma che rappresenta solo una immagine fissa e rigida della realtà.
  • maschera, che indica il ruolo che ciascun individuo interpreta nella società.

Nei suoi romanzi, novelle e opere teatrali Pirandello applica le regole della letteratura umoristica trattando dell’incidenza del caso sulla vita dell’individuo, il quale è in perenne lotta contro le convenzioni sociali. perché inutilmente cerca di ribellarsi alla forma. Il dramma dell’uomo contemporaneo risiede proprio in questa crisi della propria identità, derivata dalla perdita di una individualità e di una finalità dell’esistenza; l’uomo contemporaneo vive in una costante condizione di disperazione per la propria vita sospesa nel “vuoto esistenziale”, aggravata dall’incomunicabilità tra maschera e forma. per questo le storie di Pirandello raccontano di casi di follia, suicidio, solitudine, tutte manifestazioni della sconfitta dell’uomo stesso.

Il fu Mattia Pascal (1904)

Il fu Mattia Pascal è il primo romanzo in cui Pirandello applica sistematicamente la poetica dell’umorismo e i cui appaiono i temi fondamentali della sua ricerca. il doppio, il problema dell’identità, la critica alla modernità.

Trama
Dopo una gioventù dissipata, Mattia Pascal si trova costretto ad affrontare una vita matrimoniale che si rivela un inferno e nella quale sente annullata la sua dignità di uomo. Quando dispera di realizzare una vita autentica, vince una somma esorbitante al casinò; sul treno del ritorno legge sul giornale che i familiari lo hanno identificato col cadavere di un suicida rinvenuto nel suo podere: coglie l’occasione per rifarsi una vita, cambiando generalità , vita, connotati. Si trasferisce a Roma, dove come Adriano Meis, si fa operare l’occhio strabico e si innamora di una ragazza, ma non può sposarla, né difendersi dai ladri (gli hanno rubato un’ingente somma). Inscena, così, un altro finto suicidio e ritorna dalla moglie; lei tuttavia si è risposata. Escluso ancora una volta a Mattia Pascal non rimane che la consolazione di visitare la propria tomba e ritrovare un’identità alla rovescia: “io sono il fu Mattia Pascal”.

La storia di Mattia Pascal è condotta da una autoanalisi che descrive il mutarsi della personalità del protagonista al cambiare delle circostanze. In particolare Pirandello vuole evidenziare l’incongruenza della vita con le sue forme, l’impossibilità di avere una vita libera da ogni forma, perché paradossalmente “le forme impediscono di vivere, ma senza di esse non si può vivere”, infatti senza una forma non è possibile essere accettati nel consorzio civile.

Il romanzo è una narrazione retrospettiva in prima persona, che comincia a vicenda conclusa e in cui l’inizio coincide con la fine. Inoltre l’autore mette in discussione la verità della storia; l’opera stessa è scritta dal fu Mattia Pascal solo “per distrazione” dall’unica verità a cui è arrivato, la rivelazione che niente ha senso, neanche la scrittura di un manoscritto che nessuno leggerà perché sommerso tra altre migliaia di libri che nessuno legge più.

Novelle per un anno

Pirandello scrive novelle durante tutta la sua attività letteraria, progettando di organizzarle in una raccolta che offra al lettore l’opportunità di leggere un racconto al giorno lungo tutto il corso di un anno. Le novelle, quindi, non costituiscono un corpus organico, ma conducono una narrazione senza centro, in cui ogni racconto è un frammento che non arriva a una conclusione. Dal punto di vista tematico i racconti si distinguono in tre gruppi:

  • le novelle siciliane, ambientate sull’isola, spesso nei pressi di Girgenti — la città natale di Pirandello — presentano situazioni grottesche che deformano i personaggi, spesso in preda ad atteggiamenti folli e violenti.
  • le novelle romane ritraggono personaggi piccolo borghesi, imprigionati nella monotonia quotidiana della propria esistenza. Essi rappresentano la follia nella normalità.
  • le novelle surreali sono racconti fantastici che denunciano le convenzioni sociali per mezzo di una distaccata osservazione della dimensione dell’inconscio.

Pirandello definisce le sue novelle come specchi che riflettono una porzione della vita intera; ognuna di esse è una sequenza veloce e disorganica dell’esistenza umana, rappresentata essenzialmente dalla nevrosi che può assumere l’aspetto della piccola follia quotidiana dell’avvocato protagonista de La carriola. Egli, professionista di successo, un giorno qualsiasi contemplando un paesaggio naturale dal finestrino del treno, si accorge della vacuità della propria forma, perciò evade da essa, chiudendosi nel proprio ufficio ogni giorno e facendo “la carriola” con la sua cagnetta.
La nevrosi può anche presentarsi come una ingenua fissazione intellettuale. Ne L’eresia catara il prof. Bernardino Lamis vede come unico suo scopo di vita l’indagine sul catarismo; i suoi discorsi si perdono così nel remoto passato perdendo il contatto con la realtà presente.

La nevrosi può anche trasformarsi in pazzia conclamata, che esprime un’esplosione di sofferenza e nausea intellettuale. Il protagonista de il soffio ritiene di essere in possesso del magico potere di vita o di morte perché gli basta soffiare sulle dita unite per far morire le persone. Dopo aver sperimentato il potere dell’onnipotenza si quieta, ma dopo due settimane vuole dimostrare agli increduli il proprio dono: non accade nulla, perché il suo “soffio” corrispondeva in realtà alla contemporanea e casuale diffusione di un morbo mortale.

Uno, nessuno, centomila

Il romanzo è una narrazione a posteriori in cui il protagonista narra la sua vicenda attraverso la ricostruzione delle vicende che lo hanno portato a liberarsi da ogni forma. Vitangelo Moscarda, infatti afferma che “noi pensiamo di essere uno, ma gli altri come ci vedono? Ciascuno a modo suo, e noi non siamo uno, ma centomila: il che significa essere nessuno” Pertanto l’io si ritrova senza identità, disgregato, trova unità al di fuori di sé annullandosi in un sensuale godimento di un eterno presente.

trama
Vitangelo Moscarda ha scoperto un giorno, in conseguenza dell’osservazione della moglie, di avere un naso diverso da come pensava. Di lì comincia il suo male e inizia a chiedere a chiunque come lo vede; Vitangelo si rende conto che esistono tanti “Moscarda”, l’uno diverso dall’altro, a seconda della visione che hanno di lui le tante persone che lo conoscono. Comincia così la sua ribellione contro le diverse identità che gli altri gli hanno attribuito. Infatti, roso dalla disperazione, cerca di rompere l’immagine di figlio fannullone di un banchiere usuraio e trovare la sua vera identità. Dona la casa a un inquilino che aveva sfrattato, regala i suoi beni, mette in crisi il matrimonio. Un’amica, seguendo le sue fissazioni, impazzisce e tenta di ucciderlo. Al processo Vitangelo la scagiona, attribuendo l’accaduto al caso. Ritenuto folle, è rinchiuso nell’ospizio dei poveri, dove raggiunge la felicità: nel giardino del ricovero cercala vita “non più in sé, ma in ogni cosa fuori”, negli alberi, nelle nuvole, nel vento …

La fine del romanzo è paradossalmente positiva, perché Vitangelo, dopo aver corso il rischio di diventare “uno” — di acquisire un’identità sociale che ne farebbe in realtà il riflesso dei “centomila”, di una massa anonima- è diventato finalmente “nessuno”. Ormai ha raggiunto la “guarigione” perché vive come un sasso, una pianta o un animale, immerso nel fluire della vita, senza nome, senza pensieri, senza identità.

La vicenda di Vitangelo Moscarda vuole mostrare un percorso di uscita dalla forma per entrare nella vita, corrispondente al passaggio dalla società alla natura. La natura, infatti rappresenta la vita allo stato puro, quindi è un simbolo di positività.

Le opere teatrali: il metateatro

Il teatro, in quanto rappresentazione del reale, riscuote molto interesse da parte di Pirandello. Egli mette inscena opere fondate sulla divergenza dei punti di vista, sull’incomunicabilità e sul paradosso. In queste opere — ad esempio in Così è (se vi pare) del 1917 — evidenzia la relatività e l’inconoscibilità del vero attraverso le vicende quotidiane e banali in cui il tradizionale triangolo borghese (moglie, marito, amante) è rovesciato: la logica delle convenzioni è accettata solo per essere portata alle sue estreme conseguenze, in modo da far esplodere le contraddizioni insite al suo interno. Il teatro tradizionale diventa così grottesco, animato da personaggi che sono caratteri fissi, irrigiditi nelle loro maschere sociali.

Il dramma Sei personaggi in cerca d’autore rappresenta una svolta nella produzione di Pirandello perché la riflessione umoristica giunge ad affermare il paradosso per cui è meglio essere personaggi, definiti di volta in volta dall’autore, piuttosto che persone.

trama
Sul palcoscenico di un teatro, dove si sta rappresentando un dramma di Pirandello, irrompono sei personaggi che, rifiutati dall’autore, cercano qualcuno che li rappresenti sulla scena, che dia loro “consistenza”. Ciascuno di loro (padre, madre, figlio, figliastra, giovinetto, bambina) racconta un torbido dramma familiare, finché la bambina annega e il giovinetto si spara. Ma questi fatti potevano essere, ma non sono avvenuti, in quanto l’autore ha rifiutato di dare una forma ai personaggi, perché la forma non rispecchia la vita.

La formula del metateatro (il teatro che rappresenta se stesso) permette agli attori di assistere ad un’altra rappresentazione, diventando spettatori e critici del dramma dei personaggi in cerca di un senso alla propria esistenza e di un autore incapace di dare unità alla vicenda.

Il dramma dell’individuo è il dramma del personaggio: non c’è più distinzione tra finzione scenica e realtà, perché l’individuo non è uno, perciò non può essere rappresentato. La conclusione amara risulta essere la consapevolezza che il rifiuto di una forma non significa necessriamente trovarne un’altra.

Nell’Enrico IV si assite alla simulazione della pazzia per fuggire all’ipocrisia della società; il protagonista arriva all’assunzione consapevole di una maschera da contrapporre alle maschere quotidiane.

trama
Un giovane nobile partecipa ad una cavalcata in costume nella quale impersona l’imperatore, Enrico IV. Alla messa in scena prendono parte anche Matilde di Spina, la donna di cui è innamorato, ed il suo rivale in amore, il barone Belcredi. Quest’ultimo disarciona Enrico IV che nella caduta batte la testa e si convince di essere realmente il personaggio storico che stava impersonando.
La follia dell’uomo viene assecondata dai servitori che il nipote mette al suo servizio per alleviare le sue sofferenze; dopo 12 anni Enrico d’un tratto guarisce e torna alla ragione. Comprende che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per rubargli l’amore di Matilde, che poi si è sposata con Belcredi ed è fuggita con lui. Decide così di fingere di essere ancora pazzo, di immedesimarsi nella sua maschera per non voler vedere la realtà dolorosa e poter osservare, dal di fuori, la vita che gli è ormai negata.
Dopo 20 anni dalla caduta, Matilde, in compagnia di Belcredi, della loro figlia e di uno psichiatra vanno a trovare Enrico IV. Lo psichiatra dice che per farlo guarire si potrebbe provare a ripetere la caduta da cavallo. La scena viene così allestita, ma al posto di Matilde recita la figlia. Enrico IV si ritrova così di fronte la ragazza, che è esattamente uguale alla madre Matilde da giovane. Prova così ad abbracciare la ragazza, ma Belcredi, il suo rivale, non vuole e si oppone. Enrico IV sguaina così la spada e trafigge Belcredi ferendolo a morte: per sfuggire definitivamente alla realtà “normale” (in cui tra l’altro sarebbe stato imprigionato e processato), decide di fingersi pazzo per sempre.

La storia indica nell’isolamento dalla vita, tramite il rifugio in una finzione e nella follia, come unica possibilità per conservare una lucida estraneità non solo rispetto all’esistenza reale, ma anche rispetto ai propri stessi sentimenti.

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