L’ultima sigaretta
La debolezza della volontà
Zeno apre il racconto con un’analisi storica di quella che è stata ed è la sua principale ossessione: il vizio del fumo; si spinge cioè a ricordare dapprima le sigarette fumate in adolescenza e poi tutti i tentativi posti in essere da adulto per smettere, tentativi puntualmente non riusciti, nonostante il disgusto che fumare gli procurava (Già all’atto di impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo…,). L’autoinganno consiste nel continuo rimandare il momento in cui smettere: stabilire la data fatidica gli consente nel frattempo di fumare senza sensi di colpa e di assaporare meglio la nicotina dell’“ultima” sigaretta; poi la sfida contro la propria volontà è regolarmente perduta. Zeno, infatti, dice di voler smettere di fumare, ma la sua dichiarazione suona falsa perché in realtà egli non ha mai aspirato veramente a guarire dal tabagismo. Anzi, il fatto di riempire la vita di buoni propositi, ogni volta infranti, gli ha permesso di assaporare ripetutamente il gusto del proibito.
La coscienza di Zeno, capitolo III: Il fumo
Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica della mia propensione al fumo:
– Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.
Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz’andar a sognare su quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l’assistenza delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano.
Un tratto che connota il carattere di Zeno è senza dubbio la sua debolezza psicologica, che si esprime nella mancanza di volontà. É sintomatica il tal senso la sua incapacità di smettere di fumare.
Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette ch’io fumai non esistono più in commercio. Intorno al ’70 se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle scatole s’aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi per l’impensato incontro. Tento di ottenere di più e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.
Una delle figure, dalla voce un po’ roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l’altra, mio fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che rubai. D’estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l’altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto.
Come accadeva già al protagonista in età infantile, la proibizione eccita il gusto della trasgressione, in base alla dinamica psicologica piuttosto facile da decodificare: il desiderio di smettere di fumare accresce il piacere mediante l’emozione dell’infrazione del divieto, sempre disatteso e continuamente riproposto, come in un circolo vizioso di false promesse puntualmente eluse.
Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand’essa non esisteva più, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè… rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto d’impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m’avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia. […]
Il ricordo di Zeno bambino porta il lettore a una dimensione di raccolta intimità domestica. Il padre crede di ammattire, non sapendo raccapezzarsi di fronte alla continua sparizione dei suoi sigari. La moglie sorride dinanzi alle sue paure e questo sorriso della madre rimane impresso in Zeno, che se ne ricorderà da adulto. Il protagonista scrive infatti a un certo punto in una breve prolessi: Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie. SI può intendere che le figure femminili — qui la madre e la moglie di Zeno — rappresentano un costante richiamo alla concretezza della vita verso la quale esprimono un atteggiamento diverso rispetto a quello, spesso nevrotico, delle loro controparti maschili: la donna ha la capacità di rasserenare l’uomo, di ricondurlo alla tranquillità interiore, di farlo uscire dal gorgo dei pensieri fissi e ossessivi.
Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all’aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:
– A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre.
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch’essa che a me doveva essere rivolta in quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent’anni circa. Soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: un vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.
Il ricordo del desiderio di smettere di fumare prende avvio dalla descrizione di una condizione di malattia. Si tratta di una malattia reale (male di gola e febbre) che porta il dottore a prescrivere l’astensione dal fumo per non irritare le vie respiratorie. Questo divieto suona a Zeno come una costrizione intollerabile, una limitazione della propria libertà personale, che lo spinge a desiderare di infrangere il divieto. Il fumo non è tanto frutto di un bisogno reale, quando effetto della necessità di sentirsi libero.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:
«Non fumare, veh!»
Si noti che quando il padre suggerisce a Zeno di non fumare, lo fa con tanto di sigaro in bocca. Egli ribadisce così al figlio il divieto d’accesso a un piacere che invece a lui è concesso. Scatta in questo modo il complesso di Edipo, perché è proprio il padre a impedire al figlio di raggiungere l’oggetto del desiderio. Ma la proibizione non fa altro che esasperare la forza del desiderio, e Zeno non intende lasciare il privilegio del fumo in esclusiva al padre.
Il genitore con la sua disattenzione non aveva impedito completamente a Zeno bambino di fumare, né aveva saputo porsi come valido modello di autorità (Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi: — Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!); la madre se ne era forse resa addirittura complice. In conclusione, accendere una sigaretta significa per Zeno ribellarsi al padre ed emanciparsi da lui.
Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
«Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!»
Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Il verbo “fingere” qui usato in modo manifesto è una delle parole chiave del testo. Zeno “finge” con gli altri: con il dottore, perché non lo ascolta, con il padre, perché vuole che se ne vada presto. Ma finge anche con se stesso, come sarà evidente nel prosieguo del brano: Zeno si proporrà sempre di fumare un’ultima sigaretta, in realtà senza mai smettere davvero.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.
Il ricordo di Zeno è accompagnato da una grande ironia. Zeno ha fumato per tutta la sua vita una serie infinita di “ultime sigarette”, che non sono mai state davvero tali. La dinamica tra desiderio e divieto, tra buoni propositi e “ultime sigarette” gli permette di tacitare il senso di colpa, concedendosi il piacere dell’illecito gustato come momentaneo e unico.
Zeno comprende che la nicotina è stata per tutta la vita un alibi per non essere diventato l’uomo ideale e forte che avrebbe voluto essere. Cerca vanamente di liberarsene e di attuare saggi proponimenti, ma è proprio l’alternanza caotica di buoni propositi e di ricadute a sottolineare la malattia della volontà e la debolezza del personaggio, la cui salvezza può consistere solo nella consapevolezza e nell’ironia spesso al limite del sorriso.
Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato:
«Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!».
Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Inizia a questo punto del testo una serie di indicazioni di date che avrebbero dovuto segnare ufficialmente la decisione definitiva di smettere di fumare. La presenza di tutte queste date rivela l’inconsistenza dei buoni propositi di Zeno. In questo ricordo l’ultima sigaretta avrebbe dovuto segnare il passaggio dagli studi di legge a quelli di chimica, segnando in parallelo una nuova vita; ma il fallimento di questa nuova esperienza è anche il fallimento del proposito di smettere di fumare.
Si noti come il passaggio dagli studi di legge a quelli di chimica segni anche il cambiamento di concezione della vita: da quella delle complicazioni del mio, del tuo e del suo (il diritto privato) a quella del matraccio (cioè il recipiente di vetro impiegato dai chimici). Questo doppio cambiamento repentino significa due cose: la prima, che Zeno non riesce bene in nulla e rappresenta dunque la figura di un inetto, la seconda, che Zeno non ha le idee chiare sulla vita stessa, dal momento che muta spesso opinione
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
Il tempo della narrazione passa dal passato al presente perché Zeno, che sta redigendo il suo diario, pensa al proprio passato e riflette sulle sue azioni. Egli dà così un giudizio impietoso su se stesso: restare attaccato al suo vizio altro non è che una scusa per evitare di cambiare davvero vita. La sigaretta diventa il simbolo della sua incapacità di agire e di prendere decisioni. La conclusione della riflessione è lasciata con un tocco di autoironia a una battuta di Goldoni: visto che Zeno non ha cambiato vita da giovane è del tutto inutile cambiare ora da vecchio.
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.
Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano.
Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore.
Dal momento che la soddisfazione nasce dal superamento della proibizione, Zeno deve continuamente procurare a se stesso delle limitazioni. Questo è il senso dell’ultima sigaretta, ed è per questo che Zeno può ben dire: Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima.
La prosa sveviana procede, in questa fase del testo, tra memoria e riflessione. La prima usa i verbi al passato, la seconda al presente. Le confessioni di Zeno sono espresse attraverso il monologo interiore, che scardina la struttura tradizionale della narrazione e presenta una serie di confessioni filtrate attraverso il “tempo misto” della coscienza. Il tempo misto presenta un’alternanza di piani temporali: il presente, in cui Zeno ormai vecchio, scrive e giudica; il passato, rivissuto attraverso fatti e persone; le anticipazioni di eventi futuri.
Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899». Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: «Primo giorno del primo mese del 1901». Ancora oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: «Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.
L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
Si tratta di un ulteriore esempio della “finzione” sistematica attuata da Zeno. Tutti in famiglia lo credono tanto buono perché ricorda le date dei compleanni e degli anniversari; in realtà Zeno li ricorda perché sono legati a qualche ultima sigaretta.
Le date diventano per Zeno una sorta di pretesto per continuare il gioco con se stesso. Il protagonista non affronta direttamente il proprio vizio, non è davvero determinato a mettere in atto i propri buoni propositi, ma ne affida la messa in pratica a determinate congiunture, a eventi esterni, a date scelte per il loro carattere simbolico o per una superstiziosa combinazione di numeri.
Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!». Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
Alla conclusione del testo Zeno sostiene che per lui il tempo è una realtà che ritorna. Il protagonista oppone a una concezione lineare del tempo una concezione circolare, che riflette il concetto freudiano della “coazione a ripetere”, ossia la ripetizione nevrotica degli stessi atteggiamenti o gesti che diventano una sorta di rito, per tenere a bada il senso di colpa senza dover soffocare il desiderio.
Se dunque Zeno mantenesse la promessa fatta a se stesso di smettere di fumare, perderebbe subito il bellissimo atteggiamento del mai più!, che egli può conservare solo se può rinnovare il suo proposito. Così il protagonista, che sa di essere affetto dalla malattia dell’ultima sigaretta, tenta di dare una giustificazione del proprio comportamento.