L’uomo del miracolo economico

Italo Calvino, Marcovaldo, La pietanziera

Luca Pirola
7 min readOct 9, 2023

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta Calvino di prefigge di osservare e interpretare le tendenze della società industriale e gli effetti sociali, culturali e antropologici derivati dal miracolo economico. Sviluppando riflessioni su tematiche quali l’inquinamento, la lotta sindacale, l’alienazione sul lavoro, la pubblicità, il consumismo, lo scrittore esercita una lucida critica alla società del benessere, che cambia i gusti e le abitudini degli Italiani.

Marcovaldo rappresenta la vittima del cambiamento, perché egli — contadino inurbato — mantiene uno sguardo nostalgico del proprio mondo rurale perché non riesce a comprendere l’ambiente in cui si è trasferito. Nella città industriale Marcovaldo riesce a cogliere il riaffiorare della natura nel passare delle stagioni. Il divario tra percezione e realtà crea un effetto straniante derivato dall’attrito tra speranze e sogni di un uomo ancora sorretto da un candido ottimismo e la disincanta ironia della voce narrante.

Le gioie di quel recipiente tondo e piatto chiamato «pietanziera» consistono innanzitutto nell’essere svitabile. Già il movimento di svitare il coperchio richiama l’acquolina in bocca, specie se uno non sa ancora quello che c’è dentro, perché ad esempio è sua moglie che gli prepara la pietanziera ogni mattina. Scoperchiata la pietanziera, si vede il magiare lì pigiato: salamini e lenticchie, o uova sode e barbabietole, oppure polenta e stoccafisso, tutto ben assestato in quell’area di circonferenza come i continenti e i mari nelle carte del globo, e anche se è poca roba fa l’effetto di qualcosa di sostanzioso e di compatto. Il coperchio, una volta svitato, fa da piatto, e così si hanno due recipienti e si può cominciare a smistare il contenuto.

L’incipit apparentemente banale dà luogo, in realtà, a un geniale accostamento di immagini tra l’atto di svitare il coperchio della pietanziera e l’acquolina in bocca di chi, per una sorta di riflesso istintivo, preavverte le gioie del palato. questo avvio permette al narratore di caricare il lettore di aspettative che, dopo un gioco di alternanze fra sogni e disillusioni, precipiteranno definitivamente.

Il manovale Marcovaldo, svitata la pietanziera e aspirato velocemente il profumo, da mano alle posate che si porta sempre dietro, in tasca, involte in un fagotto, da quando a mezzogiorno mangia con la pietanziera anziché tornare a casa. I primi colpi di forchetta servono a svegliare un po’ quelle vivande intorpidite, a dare il rilievo e l’attrattiva d’un piatto appena servito in tavola a quei cibi che se ne sono stati lì rannicchiati già tante ore. Allora si comincia a vedere che la roba è poca, e si pensa: «Conviene mangiarla lentamente», ma già si sono portate alla bocca, velocissime e fameliche, le prime forchettate.
Per primo gusto si sente la tristezza del mangiare freddo, ma subito ricominciano le gioie, ritrovando i sapori del desco familiare, trasportati su uno scenario inconsueto. Marcovaldo adesso ha preso a masticare lentamente: è seduto sulla panchina d’un viale, vicino al posto dove lui lavora; siccome casa sua è lontana e ad andarci a mezzogiorno perde tempo e buchi nei biglietti tramviari, lui si porta il desinare nella pietanziera, comperata apposta, e mangia all’aperto, guardando passare la gente, e poi beve a una fontana. Se è d’autunno e c’è sole, sceglie i posti dove arriva qualche raggio; le foglie rosse e lucide che cadono dagli alberi gli fanno da salvietta; le bucce di salame vanno a cani randagi che non tardano a divenirgli amici; e le briciole di pane le raccoglieranno i passeri, un momento che nel viale non passi nessuno.

Lo sguardo di Marcovaldo ignora i segni distintivi della città, preferendo soffermarsi sugli indizi che mostrano una residua presenza di natura, come il ciclico mutare delle stagioni. Anche la pietanziera è osservata con il medesimo spirito, infatti l’oggetto, simbolo dell'operaio di fabbrica che non può permettersi un pasto caldo o il ritorno a casa durante la pausa pranzo, diventa una scatola magica, un ghiotto portagioie che cela e conserva i sapori e i profumi della cucina di famiglia.

Mangiando pensa: «Perché il sapore della cucina di mia moglie mi fa piacere ritrovarlo qui, e invece a casa tra le liti, i pianti, i debiti che saltano fuori a ogni discorso, non mi riesce di gustarlo?» E poi pensa: «Ora mi ricordo, questi sono gli avanzi della cena d’ieri». E lo riprende già la scontentezza, forse perché gli tocca di mangiare gli avanzi, freddi e un po’ irranciditi, forse perché l’alluminio della pietanziera comunica un sapore metallico ai cibi, ma il pensiero che gli gira in capo è: «Ecco che l’idea di Domitilla riesce a guastarmi anche i desinari lontano da lei».
In quella, s’accorge che è giunto quasi alla fine, e di nuovo gli sembra che quel piatto sia qualcosa di molto ghiotto e raro, e mangia con entusiasmo e devozione gli ultimi resti sul fondo della pietanziera, quelli che più sanno di metallo. Poi, contemplando il recipiente vuoto e unto, lo riprende di nuovo la tristezza.
Allora involge e intasca tutto, s’alza, è ancora presto per tornare al lavoro, nelle grosse tasche del giaccone le posate suonano il tamburo contro la pietanziera vuota. Marcovaldo va a una bottiglieria e si fa versare un bicchiere raso all’orlo; oppure in un caffè e sorbisce una tazzina; poi guarda le paste nella bacheca di vetro, le scatole di caramelle e di torrone, si persuade che non è vero che ne ha voglia, che proprio non ha voglia di nulla, guarda un momento il calcio–balilla per convincersi che vuole ingannare il tempo, non l’appetito. Ritorna in strada. I tram sono di nuovo affollati, s’avvicina l’ora di tornare al lavoro; e lui s’avvia.

Lo schema della storia segue una struttura bipartita: in un primo momento (appena letto) viene descritto ciò che Marcovaldo fa abitualmente e che costituisce la norma delle sue giornate di alienato uomo di fatica; su questa base di azioni consuetudinarie si innesta poi l’avventura vera e propria (di seguito).

Accadde che la moglie Domitilla, per ragioni sue, comprò una grande quantità di salciccia. E per tre sere di seguito a cena Marcovaldo trovò salciccia e rape. Ora, quella salciccia doveva essere di cane; solo l’odore bastava a fargli scappare l’appetito. Quanto alle rape, quest’ortaggio pallido e sfuggente era il solo vegetale che Marcovaldo non avesse mai potuto soffrire.
A mezzogiorno, di nuovo: la sua salciccia e rape fredda e grassa lì nella pietanziera. Smemorato com’era, svitava sempre il coperchio con curiosità e ghiottoneria, senza ricordarsi quel che aveva mangiato ieri a cena, e ogni giorno era la stessa delusione. Il quarto giorno, ci ficcò dentro la forchetta, annusò ancora una volta, s’alzò dalla panchina, e reggendo in mano la pietanziera aperta s’avviò distrattamente per il viale. I passanti vedevano quest’uomo che passeggiava con in una mano una forchetta e nell’altra un recipiente di salciccia, e sembrava non si decidesse a portare alla bocca la prima forchettata.
Da una finestra un bambino disse: — Ehi, tu, uomo!
Marcovaldo alzò gli occhi. Dal piano rialzato di una ricca villa, un bambino stava con i gomiti puntati al davanzale, su cui era posato un piatto.
– Ehi, tu, uomo! Cosa mangi?
– Salciccia e rape!
– Beato te! — disse il bambino.
– Eh… — fece Marcovaldo, vagamente.
– Pensa che io dovrei mangiare fritto di cervella…
Marcovaldo guardò il piatto sul davanzale. C’era una frittura di cervella morbida e riccioluta come un cumulo di nuvole. Le narici gli vibrarono.
– Perché: a te non piace, il cervello?… — chiese al bambino.
– No, m’hanno chiuso qui in castigo perché non voglio mangiarlo. Ma io lo butto dalla finestra.
– E la salciccia ti piace?…
– Oh, sì, sembra una biscia… A casa nostra non ne mangiamo mai…
– Allora tu dammi il tuo piatto e io ti do il mio.
– Evviva! — II bambino era tutto contento. Porse all’uomo il suo piatto di maiolica con una forchetta d’argento tutta ornata, e l’uomo gli diede la pietan–ziera colla forchetta di stagno.

La pietanziera contenente un pranzo poco gradito e iterato si trasforma nel mezzo grazie al quale Marcovaldo ha l’occasione per dare e ricevere una imprevista felicità, conseguente dallo scambio di piatti con il bambino: Marcovaldo finalmente gusta la frittura di cervella, mentre il bambino si gode il piatto proibito della salsiccia.

Così si misero a mangiare tutti e due: il bambino al davanzale e Marcovaldo seduto su una panchina lì di fronte, tutti e due leccandosi le labbra e dicendosi che non avevano assaggiato mai un cibo così buono.
Quand’ecco, alle spalle del bambino compare una governante colle mani sulle anche.
– Signorino! Dio mio! Che cosa mangia?
– Salciccia! — fa il bambino.
– E chi gliel’ha data?
– Quel signore lì, — e indicò Marcovaldo che interruppe il suo lento e diligente mastichio d’un boccone di cervello.
– Butti via! Cosa sento! Butti via!
– Ma è buona…
– E il suo piatto? La forchetta?
– Ce l’ha il signore… — e indicò di nuovo Marcovaldo che teneva la forchetta in aria con infilzato un pezzo di cervello morsicato.
Quella si mise a gridare: — Al ladro! Al ladro! Le posate!
Marcovaldo s’alzò, guardò ancora un momento la frittura lasciata a metà, s’avvicinò alla finestra, posò sul davanzale piatto e forchetta, fissò la governante con disdegno, e si ritrasse. Sentì la pietanziera rotolare sul marciapiede, il pianto del bambino, lo sbattere della finestra che veniva richiusa con mal garbo. Si chinò a raccogliere pietanziera e coperchio. S’erano un po’ ammaccati; il coperchio non avvitava più bene. Cacciò tutto in tasca e andò al lavoro.

La momentanea felicità di Marcovaldo, tuttavia, è fugata dalla crudele realtà. Nonostante l’entusiasmo suscitato dalla pietanziera, questo oggetto umile e anonimo non può che confermare la propria inadeguatezza rispetto ai sogni del suo proprietario. Così, se nella prima parte del racconto l’umore di Marcovaldo oscilla più volte tra l’euforia per le gioie celate nel recipiente, la delusione di trovarvi cibi poco invitanti e il disappunto per il sapore metallico trasmesso ai cibi dall’alluminio, nella seconda parte la felicità per l’inaspettato scambio con il bambino viene bruscamente interrotta dall’arrivo della governante che riporta i due personaggi al posto che spetta loro. La felicità di Marcovaldo e del bambino rotola per terra non solo in senso metaforico, dato che la pietanziera è gettata a terra ed è danneggiata.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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