Marcovaldo e la modernità
La critica alla società del benessere
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta Calvino si dedica alla narrazione della contemporaneità, con l’intento di guidare il lettore nel labirinto della civiltà moderna. L’osservazione e l’interpretazione della civiltà industriale sono condotte attraverso l’analisi minuziosa e uno sguardo ironico, al fine di fornire gli strumenti per consentire di acquisire una coscienza critica. I temi affrontati sono realistici, infatti si descrive la città industriale, i nuovi miti consumistici, il problema dell’inquinamento, l’alienazione del lavoro; contemporaneamente Calvino racconta con ironia compassionevole e disincanto lo straniamento degli immigrati in città dalla campagna o dalle regioni meridionali.
L’autore descrive così il suo intento poetico: “L’idillio «industriale» è preso di mira allo stesso tempo dell’idillio «campestre»: non solo non è possibile un «ritorno indietro» nella storia, ma anche quell’«indietro» non è mai esistito, è un’illusione. […] presentando questo libro per le scuole, vogliamo dare ai ragazzi una lettura in cui i temi della vita contemporanea sono trattati con spirito pungente, senza indulgenze retoriche, con un invito costante alla riflessione.”
Marcovaldo o le stagioni in città (1963)
Il protagonista dei racconti è Marcovaldo, un contadino inurbato che affronta la realtà di un mondo in trasformazione in modo sprovveduto e inconsapevole. Egli rappresenta l’ultimo esemplare di una generazione di ingenui e “puri” all ricerca di un mondo ideale nella città industriale.
La narrazione è condotta in 1^ persona per evidenziare i modi goffi e ingenui del protagonista, perciò è condotta in modo paradossale e ironico. Il riconoscimento del passare delle stagioni nel paesaggio urbano è il filo conduttore dei venti capitoli, i quali sono divisi in cinque cicli di quattro racconti, ciascuno dedicato ad una stagione dell’anno; se cambia l’ambientazione, costante resta la presenza del protagonista e lo schema narrativo, secondo cui Marcovaldo ritornare ad uno stato di natura in città, ma viene costantemente ingannato e deluso.
In Marcovaldo Calvino unisce aspetti fiabeschi e ironia per affrontare temi e problematiche attuali: la vita caotica in città, l’urbanizzazione senza razionalità ed ordine, l’industrializzazione crescente e la povertà delle fasce più basse della popolazione, la difficoltà dei rapporti umani ed interpersonali. L’ambientazione — la città di Marcovaldo è senza nome, ma probabilmente ispirata a Torino, una delle protagoniste del boom economico degli anni Sessanta — è il modello di ogni città, e diventa lo specchio di questa mescolanza di quotidianità mediocre ed invenzione fantastica: la metropoli è grigia, spenta e illuminata solo da luci artificiali, e tuttavia il protagonista sa rintracciarvi, con sensibilità e malinconia, i piccoli segni di una natura che non si arrende. L’azienda per cui Marcovaldo lavora, la Sbav, è il prototipo dell’azienda che sfrutta i suoi lavoratori, e al tempo stesso il simbolo della società dei consumi (tanto che non si specifica nemmeno cosa la ditta produca effettivamente). La vita di Marcovaldo è insomma quella dell’operaio inurbato, fatta di difficoltà e di privazioni, e il mondo attorno a lui è spesso ostile e indifferente, tanto che spesso egli si perde e si smarrisce nella cità stessa.
La cura delle vespe
La cura delle vespe (primavera): Marcovaldo, scoperto come curare i suoi mille reumatismi col veleno delle api, Marcovaldo pensa di improvvisare medico e incarica i figli di cacciarne il più possibile e di conservarle in alcuni barattoli. Quando il figlio Michelino ne rompe uno, tuttii finiscono all’ospedale per le punture.
Il testo è diviso in quattro sequenze. Prima sequenza: Marcovaldo e il signor Rizieri. Si introduce l’ambiente — il parco cittadino — e il problema quotidiano dei reumatismi.
L’inverno se ne andò e si lasciò dietro i dolori reumatici. Un leggero sole meridiano veniva a rallegrare le giornate, e Marcovaldo passava qualche ora a guardar spuntare le foglie, seduto su una panchina, aspettando di tornare a lavorare. Vicino a lui veniva a sedersi un vecchietto, ingobbito nel suo cappotto tutto rammendi: era un certo signor Rizieri, pensionato e solo al mondo, anch’egli assiduo delle panchine soleggiate. Ogni tanto questo signor Rizieri dava un guizzo, gridava — Ahi! — e s’ingobbiva ancora di più nel suo cappotto. Era carico di reumatismi, di artriti, di lombaggini, che raccoglieva nell’inverno umido e freddo e che continuavano a seguirlo tutto l’anno. Per consolarlo, Marcovaldo gli spiegava le varie fasi dei reumatismi suoi, e di quelli di sua moglie e di sua figlia maggiore Isolina, che, poveretta, non cresceva tanto sana.
Seconda sequenza: Marcovaldo, casualmente, legge su un ritaglio di giornale che i reumatismi si possono curare con la puntura delle vespe, perciò ne cattura una e costringe il Rizieri a sottoporsi alla puntura. Il vecchietto dopo la “cura” salta arzillo, come ringiovanito.
Marcovaldo si portava ogni giorno il pranzo in un pacchetto di carta da giornale; seduto sulla panchina lo svolgeva e dava il pezzo di giornale spiegazzato al signor Rizieri che tendeva la mano impaziente, dicendo: — Vediamo che notizie ci sono, — e lo leggeva con interesse sempre uguale, anche se era di due anni prima.
Così un giorno ci trovò un articolo sul sistema di guarire dai reumatismi col veleno d’api.
– Sarà col miele, — disse Marcovaldo, sempre propenso all’ottimismo.
– No, — fece Rizieri, — col veleno, dice qui, con quello del pungiglione, — e gli lesse alcuni brani. Discussero a lungo sulle api, sulle loro virtù e su quanto poteva costare quella cura.
Da allora, camminando per i corsi, Marcovaldo tendeva l’orecchio a ogni ronzio, seguiva con lo sguardo ogni insetto che gli volava attorno. Così, osservando i giri d’una vespa dal grosso addome a strisce nere e gialle, vide che si cacciava nel cavo d’un albero e che altre vespe uscivano: un brusio, un va e vieni che annunciavano la presenza di un intero vespaio dentro al tronco. Marcovaldo s’era messo subito alla caccia. Aveva un barattolo di vetro, in fondo al quale restavano ancora due dita di marmellata. Lo posò aperto vicino all’albero. Presto una vespa gli ronzò intorno, ed entrò, attratta dall’odore zuccherino; Marcovaldo fu svelto a tappare il barattolo con un coperchio di carta.
E al signor Rizieri, appena lo vide, potè dire: — Su, su, ora le faccio l’iniezione! — mostrandogli il flacone con la vespa infuriata prigioniera.
Il vecchietto era esitante, ma Marcovaldo non voleva a nessun costo rimandare l’esperimento, e insisteva per farlo lì stesso, sulla loro panchina: non c’era neanche bisogno che il paziente si spogliasse. Con timore e insieme con speranza, il signor Rizieri sollevò un lembo del cappotto, della giacca, della camicia, e aprendosi un varco tra le maglie bucate si scoperse un punto dei lombi dove gli doleva. Marcovaldo applicò lì la bocca del flacone e strappò via la carta che faceva da coperchio. Da principio non successe niente; la vespa stava ferma: s’era addormentata? Marcovaldo per svegliarla menò una botta sul fondo del barattolo. Era proprio il colpo che ci voleva: l’insetto sfrecciò avanti e conficcò il pungiglione nei lombi del signor Rizieri. Il vecchietto cacciò un urlo, saltò in piedi e prese a camminare come un soldato che fa il passo di parata, sfregandosi la parte punta e sgranando una sequela di confuse imprecazioni.
Marcovaldo era tutto soddisfatto, mai il vecchietto era stato così diritto e marziale. Ma s’era fermato un vigile lì vicino, e guardava con tanto d’occhi; Marcovaldo prese Rizieri sottobraccio e s’allontanò fischiettando.
Terza sequenza: Marcovaldo sottopone tutti i familiari alla “cura delle vespe”, riscontrando ulteriori successi. Anche il Rizieri è soddisfatto, tanto che porta a Marcovaldo un amico, che cammina a stento a causa dei reumatismi. La voce si sparge e Marcovaldo improvvisa una clinica delle vespe in casa sua, creando un “ambulatorio” con un telo steso in soggiorno.
Rincasò con un’altra vespa nel barattolo. Convincere la moglie a farsi fare la puntura non fu affare da poco, ma alla fine ci riuscì. Per un po’, se non altro, Domitilla si lamentò solo del bruciore della vespa.
Marcovaldo si diede a catturare vespe a tutt’andare. Fece un’iniezione a Isolina, una seconda a Domitilla, perché solo una cura sistematica poteva recare giovamento. Poi si decise a farsi pungere anche lui. I bambini, si sa come sono, dicevano: — Anch’io, anch’io, — ma Marcovaldo preferì munirli di barattoli e indirizzarli alla cattura di nuove vespe, per alimentare il consumo giornaliero.
Il signor Rizieri venne a cercarlo a casa; era con lui un altro vecchietto, il cavalier Ulrico, che trascinava una gamba e voleva cominciare subito la cura.
La voce si sparse; Marcovaldo ora lavorava in serie: teneva sempre una mezza dozzina di vespe di riserva, ciascuna nel suo barattolo di vetro, disposte su una mensola. Applicava il barattolo sulle terga dei pazienti come fosse una siringa, tirava via il coperchio di carta, e quando la vespa aveva punto, sfregava col cotone imbevuto d’alcool, con la mano disinvolta d’un medico provetto. Casa sua consisteva d’una sola stanza, in cui dormiva tutta la famiglia; la divisero con un paravento improvvisato, di qua sala d’aspetto, di là studio. Nella sala d’aspetto la moglie di Marcovaldo introduceva i clienti e ritirava gli onorari. I bambini prendevano i barattoli vuoti e correvano dalle parti del vespaio a far rifornimento. Qualche volta una vespa li pungeva, ma non piangevano quasi più perché sapevano che faceva bene alla salute.
Quarta sequenza: La richiesta di cura è notevole perciò Marcovaldo sguinzaglia i figli a rifornirsi di vespe. L’eccesso di zelo fa sì che Michelino faccia cadere il barattolo dentro un vespaio, suscitando la reazione degli insetti, che lo rincorrono fino a casa. Tutti i presenti sono punti ripetutamente dalle vespe e ricoverati in ospedale, dove Marcovaldo riceve gli insulti di tutti i presenti.
Quell’anno i reumatismi serpeggiavano tra la popolazione come i tentacoli d’una piovra; la cura di Marcovaldo venne in grande fama; e al sabato pomeriggio egli vide la sua povera soffitta invasa d’una piccola folla d’uomini e donne afflitti, che si premevano una mano sulla schiena o sui fianchi, alcuni dall’aspetto cencioso di mendicanti, altri con l’aria di persone agiate, attratti dalla novità di quel rimedio.
– Presto, — disse Marcovaldo ai suoi tre figli maschi, — prendete i barattoli e andatemi ad acchiappare più vespe che potete –. I ragazzi andarono.
Era una giornata di sole, molte vespe ronzavano nel corso. I ragazzi erano soliti dar loro la caccia un po’ discosti dall’albero in cui era il vespaio, puntando sugli insetti isolati. Ma quel giorno Michelino, per far presto e prenderne di più, si mise a cacciare proprio intorno all’imboccatura del vespaio. — Così si fa, — diceva ai fratelli, e cercava di acchiappare una vespa cacciandole sopra il barattolo appena si posava. Ma quella ogni volta volava via e ritornava a posarsi sempre più vicino al vespaio. Ora era proprio sull’orlo della cavità del tronco, e Michelino stava per calarle sopra il flacone, quando sentì altre due grosse vespe awentarglisi contro come se volessero pungerlo al capo. Si schermì, ma sentì la trafittura dei pungiglioni e, gridando dal dolore, lasciò andare il barattolo. Subito, l’apprensione per quel che aveva fatto gli cancellò il dolore: il barattolo era caduto dentro la bocca del vespaio. Non si sentiva più nessun ronzio, non usciva più nessuna vespa; Michelino senza la forza neppure di gridare, indietreggiò d’un passo, quando dal vespaio scoppiò fuori una nuvola nera, spessa, con un ronzio assordante: erano tutte le vespe che avanzavano in uno sciame infuriato!
I fratelli sentirono Michelino cacciare un urlo e partire correndo come non aveva mai corso in vita sua. Pareva andasse a vapore, tanto quella nuvola che si portava dietro sembrava il fumo d’una ciminiera.
Dove scappa un bambino inseguito? Scappa a casa! Così Michelino.
I passanti non avevano il tempo di capire cos’era quell’apparizione tra la nuvola e l’essere umano che saettava per le vie con un boato misto a un ronzio.
Marcovaldo stava dicendo ai suoi pazienti: — Abbiate pazienza, adesso arrivano le vespe, — quando la porta s’aperse e lo sciame invase la stanza. Nemmeno videro Michelino che andava a cacciare il capo in un catino d’acqua: tutta la stanza fu piena di vespe e i pazienti si sbracciavano nell’inutile tentativo di scacciarle, e i reumatizzati facevano prodigi d’agilità e gli arti rattrappiti si scioglievano in movimenti furiosi.
Vennero i pompieri e poi la Croce Rossa. Sdraiato sulla sua branda all’ospedale, gonfio irriconoscibile dalle punture, Marcovaldo non osava reagire alle imprecazioni che dalle altre brande della corsia gli lanciavano i suoi clienti.
Stile
Il tono dominante è l’ironia che attraverso la lente della fantasia di Marcovaldo fa diventare divertente e positivo ogni aspetto della vita alienata della grande città. Il racconto è impostato secondo uno stile leggere e leggibile secondo il carattere fiabesco a cui contribuiscono la presenza del vecchio ingobbito, le operazioni di cattura delle vespe, i nomi nomi stravaganti; i luoghi, inoltre, sono trasformati dall’immaginazione (l’appartamento diventa un ambulatorio).
Lo stile incalzante nella sintassi aumenta il ritmo in occasione delle azioni più frenetiche (parte finale) e caratterizza i personaggi (ad es. Rizieri falsamente autorevole).
Interpretazione e approfondimento
Marcovaldo è spinto dalla sua indole a riparare tutte le imperfezioni della natura (i reumatismi), tuttavia l’ambiente in cui si trova — la città industriale, piena di smog e traffico — impedisce il lieto fine alle sue avventure, perché Marcovaldo è inadeguato alla vita in città. Marcovaldo affronta le difficoltà quotidiane con la fantasia e l’immaginazione, perciò ha una dimensione di eroe tragicomico; racchiude in sé le caratteristiche dell’operaio sfruttato dall’industria (ha un lavoro pessimo, senza soddisfazioni, abita in una soffitta e mantiene la famiglia con un misero stipendio), tuttavia ogni momento della sua giornata cerca i segni per poter essere felice. Marcovaldo sente il peso della tecnologia, ma desidera ritrovare una dimensione umana e naturale in un ambiente alienente.