Meriggiare pallido e assorto
L’aridità dell’esistenza umana
Il poeta trascorre le ore più calde di un pomeriggio estivo osservando gli elementi più minuti della natura circostante. Il paesaggio ligure, assolato e riarso dal sole, diventa così in questa lirica un emblema della sofferenza e del male di vivere che accomuna tutte le creature. Passeggiando, il poeta constata, con triste stupore, che vivere è come camminare da soli costeggiando un muro invalicabile, sfiorando il vero senso dell’esistenza senza però mai comprenderlo appieno. Il suo punto di vista sembra quindi sfumare in uno sguardo più ampio, che riguarda tutti gli uomini.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto ,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
In un soleggiato mezzogiorno silenzioso e torrido, il poeta osserva il paesaggio riflettendo sulla propria condizione di uomo, immerso in una natura per nulla accogliente, nella quale risuonano rumori e fruscii inquietanti. Il verbo iniziale meriggiare è il primo di una lunga serie di infiniti e forme impersonali (“ascoltare” “Osservare”, “andando”, “sentire”, “seguitare”) che ricorrono nel componimento, a dar conto di una situazione di desolante staticità nella quale l’io poetico è immerso, in impassibile e inerte contemplazione.
Gli aggettivi pallido e assorto indicano la condizione di distacco emotivo del poeta da ciò che lo circonda. Solo dopo aver osservato il paesaggio si accorge che l’ambiente assomiglia al suo stato d’animo.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche
Il frenetico movimento delle formiche allude alla condizione dell’uomo sempre in movimento sena sapere dove dirigersi. Le biche sono i mucchietti di terra, prodotti dal continuo scavare delle formiche immagine dell’insensatezza di vivere che pervade il creato.
L’impressione di inquietudine esistenziale, oltre che dal paesaggio brullo e dal ricorso ai correlativi oggettivi, è data anche dal ricorso assai insistito e talora combinato a suoni aspri e secchi della — c velare (“schiocchi”, “crepe”, “formiche”, “biche”, “scricchi”, “picchi”) della — s — e della — r — (“merli”, “frusci”, “serpi”, “s’intrecciano”, “frondi”, “triste”), del gruppo — gl — (“abbaglia”, “meraviglia”, “travaglio”, “muraglia”, “bottiglia”), ad esempio il suono vibrante delle cicale è reso anche fonicamente con scricchi. I suoni aspri, che ricorrono per tutta la poesia (fino a subire un’accentuazione nella strofa finale), ricordano le scelte stilistiche del Dante delle “rime petrose”. Tale effetto è enfatizzato anche da alcune rime particolarmente evidenti, come quelle dell’ultima strofa.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi
Lo sguardo del poeta progressivamente si alza, dalle crepe del suolo (v.5) alle onde del mare, e di qui ai calvi picchi (v.12) che si ergono nei paraggi.
Le scaglie di mare è l’immagine che Montale usa per simboleggiare il desiderio di assoluto. Caratteristica degli Ossi di seppia è propria questa capacità di cogliere nel dato paesaggistico le luci, i colori e le forme e nel tradurli nella manifestazione concreta di uno stato esistenziale, che in essi si oggettiva.
I calvi picchi sono le cime rocciose prive di qualsiasi forma di vegetazione (“calvi”), a ribadire l’immagine di aridità già suggerita nel primo verso.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia
Infine l’osservazione attenta cede il passo a una riflessione che ne è conseguenza: la progressione dei verbi percettivi (ascoltare, spiar, osservare …) culmina nel sentire della quarta strofa, che indica al tempo stesso una sensazione fisica e un sentimento interiore. L’enunciazione è interamente condotta tramite verbi all’infinito: gli atti percettivi sono così sottratti all’emotività del soggetto e a uno sviluppo cronologico, così da acquistare una portata universale. Inoltre essi costruiscono l’idea di un ritmo ripetitivo, prestabilito e immodificabile.
La triste meraviglia è la consapevolezza dell’impossibilità (e dell’inutilità) di qualsiasi ribellione al “male di vivere”, per l’assenza di una qualsiasi spiegazione alla nostra esistenza di là del muro. Il rovente muro d’orto (v.2) diviene muraglia (v.16) insuperabile, a suggerire l’idea di qualcosa di davvero invalicabile, quasi che si trattasse, più che di una barriera fisica, di una condizione metafisica ed esistenziale. Il muro è emblema del limite che non può in alcun modo essere superato e dell’insensatezza dell’esistenza; vivere equivale a costeggiarla, sapendo che ogni tentativo di superarla è impedito dai cocci aguzzi di bottiglia (v.17) che la sormontano, suggellando l’irrimediabile destino di solitudine dell’uomo.
Un meriggiare antidannunziano
L’annullarsi del tempo, al culmine di un assolato mezzogiorno estivo, è una situazione tipica di Alcyone. Nel poema dannunziano il mezzogiorno contribuisce a determinare la fusione tra l’uomo e il sensuale paesaggio tirrenico (si pensi a meriggio). Montale riprende questo motivo imprimendogli una forte torsione: al panismo subentra una sensazione di irrimediabile disarmonia trasposta in un luogo brullo e scosceso, teatro di un’amarra meditazione sul significato della vita, paragonata a un insensato procedere lungo un invalicabile muro d’orto (v.2).
La natura qui non si presta a un contatto sereno, ma rispecchia l’aridità dello spirito, quasi intorpidito nel suo monotono viaggio su terreni screpolati dal calore, coperti da pruni e sterpi (v.3), circondati da calvi picchi (v.12). la luminosità accecante si rifrange sulla superficie del mare, che scintilla in lontananza come un ristoro potenzialmente consolante, ma in realtà remoto, perciò intangibile.
Inoltre l’osservazione distaccata del paesaggio richiama una celebre pagina dello Zibaldone, in cui Leopardi si china a osservare “un giardino di piante, d’erbe, di fiori”, scoprendovi una miniatura dell’universale sofferenza in cui si dibatte il creato. Anche Montale rovescia il topos tradizionale classico del locus amoenus, senza ricavarne però, come Leopardi, un moto di ribellione, ma soltanto un senso di avvilita impotenza.