Meriggio
La fusione del superuomo con la natura. Laudi, libro III: Alcyone
Meriggio è una delle poesie esemplari del panismo dannunziano, la tendenza a confondersi e mescolarsi con la natura e i suoi elementi: cielo, terra, mare fiumi. Questa tendenza è un tema ricorrente nelle liriche di Alcyone e trova la sua massima espressione in Meriggio. La poesia è composta da quattro strofe uguali, ciascuna costituita da ventisette versi di varia natura. La chiusa è formata da un solo verso, che fa da sugello alla trasumanazione del poeta.
Il poeta si trova sulla foce dell’Arno e osserva il paesaggio che lo circonda, avvolto nella calura estiva del meriggio. In questo momento di pienezza dell’estate, il poeta superuomo può diventare una cosa sola con la natura circostante grazie all’estasi panica, ossia l’esperienza di fusione completa nel Tutto.
Metrica: quattro strofe di ventisette versi liberi, oscillanti tra il quinario e l’ottonario, e liberamente rimati, seguite da un verso isolato in coda.
La prima parte (le prime due strofe) ha un carattere descrittivo, in cui il poeta canta il paesaggio che si ammira lungo la foce dell’Arno, immerso nella calura, nel torpore e nel silenzio del meriggio estivo. Il mare ha il colore verde biancastro degli oggetti di bronzo dissepolti dalle tombe sotterranee, l’aria è immobile, la spiaggia deserta, sul mare ci sono le vele ferme. Si vedono Capo Corvo, l’isola del Faro, la Capraia e la Gorgona. Dominano il paesaggio le Alpi Apuane che si levano al cielo quasi spinte dal loro orgoglio. La foce dell’Arno si è trasformata in uno stagno salmastro, silenziosa tra le capanne dei pescatori e tra le reti a bilancia che pendono dalle pertiche incrociate. L’acqua della foce prima mossa dal vento, sembrava sorridere, poi cessato il vento, ha il colore del bronzo. Somiglia all’acqua del Lete, ferma, liscia. Viste da lontano, le due rive dell’Arno sembrano avvicinarsi e unirsi in un cerchio di canne immobili, silenziose. Più cupi sono i boschi di san Rossore, mentre i boschi più lontani sono azzurri come il cielo. Nell’entroterra, i Monti Pisani sembrano dormire, sotto immobili cumuli di vapore.
Nella descrizione della natura D’Annunzio raggiunge un sublime esito formale grazie all’impiego sapiente, per quanto irregolare, delle rime e dei richiami sonori.
A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
Il primo verso ci indica l’ora meridiana che, come si vedrà, è un momento fortemente simbolico, quello in cui il poeta superuomo può diventare una cosa sola con la natura, giunta come lui al culmine del proprio cammino ascensionale.
D’Annunzio usa sempre un lessico impreziosito da arcaismi: chiama il Tirreno mare etrusco in onore appunto degli etruschi, gli antichi abitanti della Toscana e dell’alto Lazio che i greci chiamavano Tyrrenói.
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento in torno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se ascolto.
La descrizione del paesaggio avviene per negazione, resa efficace attraverso l’anafora di Non in principio di periodo, come se il poeta intendesse dare l’idea dello spettacolo naturale attraverso una reiterata e progressiva assenza di elementi vitali: non c’è vento, il mondo vegetale non si muove, non si ode alcun suono. Successivamente D’Annunzio procede nella descrizione del paesaggio per frasi brevi ed essenziali, in modo da imprimere nel lettore la sua constatazione dei dati naturali. Nel breve periodo tra i versi 11 e 15, in particolare, l’assenza di un articolo (“una” o “la”) contribuisce a rendere ancora più sospesa l’immagine delle bianche barche a vela, che sono immobili al largo per l’assenza di vento. Esse non sono definite come oggetti (cioè, barche), ma vengono percepite per via del loro colore come una riga nel mare.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgóna.
Il riferimento è a una delle più potenti invettive della Commedia dantesca, quando il poeta si rivolge alle isole di Gorgona e di Capraia invitandole a occludere la foce dell’Arno per annegare tutti i pisani, colpevoli di aver lasciato morire di fame il conte Ugolino e i suoi figli
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.
La seconda parte (terza e quarta strofa e ultimo verso isolato) ha carattere panico: D’Annunzio descrive l’estasi panica, la sua identificazione con gli elementi della natura. Contemplando la natura, egli sente dissolversi il suo essere umano, e s’immerge nelle cose e le cose s’immergono in lui, in uno scambio reciproco di forme, e il paesaggio diventa antropomorfico. L’estate diventa un frutto che il poeta solo può assaggiare. Scompare in lui ogni segno umano: il volto ha il colore del meriggio, la barba bionda luccica come le alghe essiccate sulla spiaggia; la sabbia del lido è come il suo palato e il cavo della sua mano. La forza del suo corpo disteso sulla spiaggia vi imprime la sua forma, e si immedesima con essa; il fiume è come il sangue nelle sue vene, il monte come la sua fronte, la selva come la peluria del suo ventre, la nube è come il suo sudore. E lui vive nel fiore della stiancia, nella scaglia del pino, nella bacca del ginepro, nel fuco, nella paglia marina, in cose piccole e in cose grandi, nella sabbia vicina e nelle Alpi lontane. Il lui sono raccolti il calore e la luce del meriggio, e tutte le cose attorno a lui hanno perso il loro nome e la loro identità. Anche il poeta non ha più identità, perché si identifica col meriggio e vive con la natura. E la sua vita, perduta l’identità umana e trasformatasi in forza vitale diffusa nelle cose, è divina, superiore alla condizione umana.
La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
D’Annunzio continua la descrizione delle acque della foce dell’Arno paragonandole, per il loro colore pallido e smorto, agli oggetti in bronzo rinvenuti nelle tombe (come già ai vv. 4–5). Questo accostamento carica di significato la descrizione: il colore dell’acqua ferma e immobile è assimilata al colore di oggetti legati alla fissità della morte, a indicare la totale assenza di vita di quello che è considerato l’elemento vitale per eccellenza, appunto l’acqua.
Nei versi successivi l’acqua della foce dell’Arno non solo è senza vita, ma ha addirittura caratteri inferi, tanto da essere paragonata al Lete, il fiume dell’oltretomba che nella mitologia classica dona l’oblio (obliviosa). Inoltre, essa sembra non avere uno sbocco libero verso il mare, perché appare chiusa in una superficie stagnante e silenziosa.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblìo silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
La seconda parte del testo abbandona la descrizione per rappresentare la progressiva metamorfosi dell’io lirico, che depone la propria identità umana per diventare progressivamente una sola cosa con il paesaggio circostante.
Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Questa seconda parte del componimento si apre ancora sull’immagine fortemente simbolica del meriggio, quando tutto è giunto al momento culminante: il sole, nel ciclo della giornata, e tutta la natura, nel ciclo dell’Estate, che è la stagione in cui si compie la maturazione dei frutti (ed è significativamente paragonata a un pomo maturo che l’io può coglieree suggere). Anche il poeta superuomo è giunto al culmine del suo percorso esistenziale e, dunque, in tale ora si può attuare l’identificazione tra uomo e natura, ossia l’estasi panica
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
L’identificazione tra il superuomo e la natura non avviene immediatamente, ma attraverso tappe: 1. anzitutto, il poeta ricerca la solitudine (Perduta è ogni traccia / dell’uomo); 2. successivamente, l’allontanamento spaziale si fa distacco interiore, fino alla cancellazione della memoria di se stesso, simboleggiata dalla perdita del proprio nome (Non ho più nome).
E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dall’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.
Dopo essersi spogliato della propria umanità, il poeta superuomo può congiungersi con la natura attraverso l’estasi panica. Questo processo è caratterizzato da tre momenti, il primo dei quali consiste nella scoperta di alcune affinità e analogie, che D’Annunzio ci comunica con una serie di similitudini (come… come… come…).
Nella terza strofa il secondo momento dell’estasi panica è l’estensione dell’io e della sua energia al mondo circostante, fino all’identificazione con i vari elementi del paesaggio. Qui D’Annunzio abbandona la similitudine e impiega l’analogia: il fiume è la mia vena, / il monte è la mia fronte, / la selva è la mia pube, / la nube è il mio sudore. Nell’estasi panica vengono a cadere le differenze spaziali e l’io è presente contemporaneamente nel vicino e nel lontano, nel piccolo e nel grande.
E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca
del ginepro: io sono nel fuoco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua
nelle vette lontane.
Il poeta superuomo è ora nel pieno della sua estasi panica. Egli ha abbandonato completamente i suoi caratteri individuali, tutte le precedenti distinzioni tra sé e gli elementi del paesaggio naturale si sono annullate, e tanto il soggetto, quanto gli elementi del paesaggio, entrano a far parte del Tutto. La metamorfosi è compiuta. Il poeta è egli stesso il Meriggio e, proprio come il meriggio estivo, può bruciare e risplendere (Ardo, riluco).
Ardo, riluco
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.E la mia vita è divina.
La conclusione presenta un po’ a sorpresa il riferimento alla Morte, in apparente contraddizione con l’immagine di vita divina che il poeta persegue, e che il verso finale di questa poesia sembra voler indicare come traguardo raggiunto. Si tratta di una contraddizione solo apparente, che riflette una concezione della vita e della morte che trae spunto dalla Nascita della tragedia di Nietzsche e che si distacca dai paradigmi tradizionali: nella vita divina del Tutto, che eternamente si rigenera in un ciclo ininterrotto, la morte è parte integrante, perché da essa scaturisce la vita. In questa visione panica della natura la morte non è, dunque, la conclusione del tragitto esistenziale, ma parte di un meccanismo ciclico di rinascita.
Il panismo di Meriggio è di matrice superomistica. L’identificazione fra io e natura non è esperienza che tutti possano fare e comprendere. Solo chi, come il poeta-superuomo, è in grado di andare oltre la comune sorte tra gli uomini, può cogliere e suggere il pomo di questa vita divina nel profondo del segreto dell’Universo, come sottolinea l’inizio della terza strofa: l’Estate matura sul capo del poeta come un frutto che solo a lui è stato promesso, che solo la sua mano può afferrare, solo le sue labbra possono gustare pienamente.