O bella età dell’oro

Aminta, coro dell’atto 1°

Luca Pirola
6 min readNov 14, 2020
Adolphe Bouguereau, Ninfe e satiro. 1873

I cinque atti dell’Aminta sono chiusi da cinque cori che, come avveniva nella tragedia greca, commentano l’azione e spiegano i concetti fondamentali dell’opera. Qui di seguito leggiamo il coro del primo atto, dedicato al mito dell’età dell’oro. Questo mito era già stato trattato nella letteratura greca e latina, e aveva avuto grande fortuna anche nel Rinascimento.

Fedele alla tradizione della tragedia classica, Tasso restituisce al coro la funzione di chiudere ciascun atto e di commentarne le tematiche e l’azione, sviluppando il tema in un modo completamente nuovo.
I pastori esaltano la felicità che l’uomo possedeva nella sua condizione primitiva, e che ora ha perduto, non dipendeva dalle meraviglie della natura, come sostenevano i poeti antichi, ma dal fatto che a quel tempo non esisteva il concetto di onore. L’amore era perciò libero e innocente, mentre ora non può più esserlo, perché le leggi dell’onore controllano severamente i sentimenti e le azioni dell’uomo. Il canto dei pastori si conclude con l’invito rivolto all’onore perché occupi pure le sedi del potere, le corti, ma lasci in pace i pastori, cioè la gente umile. Si tratta di una condanna della vita nelle corti e, più in generale, della cultura della Controriforma, che attribuiva all’onore un posto di primo piano tra le virtù del vero gentiluomo.

Schema metrico:canzonetta di cinque stanze di endecasillabi e settenari con schema di rime abC, abC, cdeeDfF, più un congedo di tre versi: XyY

O bella età de l’oro,
non già perché di latte
sen’ corse il fiume e stilò mele il bosco;
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre, e gli angui errâr senz’ira o tosco;
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino;

Le prime due strofe compongono un unico periodo sintattico e logico. Nella prima, il coro espone i motivi per i quali gli antichi hanno celebrato l’età dell’oro attraverso l’elencazione di elementi topici (la natura produceva spontaneamente i suoi frutti, era possibile godere di una primavera eterna, non esistevano nemici).
L’esaltazione dell’età dell’oro è un topos che attraversa verticalmente la letteratura, fin dall’età classica. La riflessione di Tasso è tesa a mostrare che la felicità dell’età antica era dovuta tanto alla possibilità di godere di un’assoluta libertà, quanto alla mancanza delle regole codificate che hanno una pesante ricaduta sul piano sociale del comportamento e, dunque, dell’apparenza.

Nella seconda stanza, Tasso esprime il nucleo tematico sul quale si centra la sua riflessione: in quell’età non vigeva ancora la legge dell’onore, ma solo quella dell’amore.
La struttura della poesia è alternata dal punto di vista tematico: nelle stanze I e III, il poeta rievoca la bellezza dell’età dell’oro; nelle stanze II e IV il suo interesse è rivolto al tema dell’onore. Significativamente la strofa si apre con l’avversativa ma, che indica uno stacco concettuale dal motivo trattato nei versi precedenti.

ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto,

La prima parte della stanza è composta da un climax (nomeidol), arricchito dalla presenza dell’anafora(quel… quell’… quel) e del poliptoto(idolo… idol)

che di nostra natura ’l feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell’alme in libertate avvezze,
ma legge aurea e felice
che natura scolpì: S’ei piace, ei lice.

Tasso esalta in questi versi la dolcezza e la libertà dell’amore e dunque critica l’onore, definendolo una condizione artefatta, creata dall’uomo e venerata al pari di un idolo ingannevole. L’onore è dunque il vero tiranno della nostra natura. Tale concezione tassiana va però contestualizzata: il poeta non sta compiendo una banale apologia dell’amore libertario e sregolato, ma un’esaltazione dell’amore secondo la legge naturale.

Tasso esprime nella seconda parte della seconda stanza una critica nei confronti della civiltà umana, poiché costituisce una limitazione della libertà dell’uomo costretto a comportamenti che non sono secondo natura.

Il motto che sintetizza l’età dell’oro è S’ei piace, ei lice, segno che l’uomo, vivendo in piena armonia con la natura, segue il proprio piacere come fine ultimo della propria esistenza.

Allor tra fiori e linfe
traean dolci carole
gli Amoretti senz’archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose,
ch’or tien nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l’amata il vago.

La terza strofa riprende il tema della bellezza dell’età dell’oro, ponendo questo mito in un mondo fittizio e letterario, lontano dal mondo vero e reale, significativamente indicato dall’avverbio Allor. Questo mondo “fittizio” si rispecchia però nel presente e in particolare nella corte, anch’essa “luogo irreale”, poiché vi dimorano stabilmente la finzione e le regole strettamente codificate. La corte si manifesta come il luogo per eccellenza dell’onore.

L’Aminta — che venne scritta per la corte degli Estensi e rappresentata nell’isoletta di Belvedere sul Po (e dunque in un luogo di per sé bucolico) — si riferisce proprio al contesto cortigiano mostrandone, come in uno specchio, la lontananza rispetto al mondo mitico dell’età dell’oro dove ogni comportamento era naturale, mentre nella corte ogni atto è finzione. Tasso attraverso l’Aminta intende costruire una “rappresentazione della corte” denunciandone indirettamente le scorrettezze e l’innaturalità delle relazioni cortigiane.

Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l’onde a l’amorosa sete;
tu a’ begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete;
tu raccogliesti in rete
le chiome a l’aura sparte;
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi;
a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d’Amore.

La strofa è indirizzata all’onore attraverso un’apostrofe diretta e con una serie di anafore reiterate (Tu prima… tu a’ begli occhi… tu raccogliesti… tu i dolci atti… ). L’onore rappresenta tutto ciò che ha trasformato la vita secondo natura codificandola con le regole del vivere civile nella società moderna. Emblema ultimo di questo mondo regolato e strutturato è proprio la corte.

E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d’Amore e di Natura donno,
tu domator de’ Regi,
che fai tra questi chiostri
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene, e turba il sonno
a gl’illustri e potenti:
noi qui, negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l’uso de l’antiche genti.
Amiam, che non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.

La quinta strofa chiude la canzonetta con un ultimo riferimento diretto all’onore, unica causa delle sofferenze dell’uomo moderno. Il poeta lo invita a frequentare luoghi a lui più consoni, come le corti, dove tutto è artificio e ipocrisia, e a lasciare che il pacifico mondo dei boschi e dei pastori continui a vivere all’insegna delle ingenue e primitive leggi di natura.

La parte centrale pone in contrasto da un lato i potenti, ai quali l’onore si addice, e dall’altro i miseri, che invece desiderano vivere secondo natura. Questa opposizione è funzionale a marcare uno scarto semantico paradossale. I miseri sono in realtà i più felici perché possono vivere in piena libertà, mentre i potenti sono in realtà i più infelici perché costretti a vivere secondo le leggi dell’onore e dunque della mistificazione e dell’inganno. La finzione letteraria della favola pastorale permette a Tasso di rivolgersi al suo pubblico (la corte) rivelando nel suo messaggio un’ironica denuncia della realtà cortigiana.

Amiam, che ’l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce.

La conclusione della stanza e il congedo rimodulano in chiave moderna il topos classico della vita che fugge, evidenziando come il monito ad amare nasce dalla consapevolezza della fugacità del tempo. Questa visione pessimistica acutizza il pessimismo sotteso alla lirica, infatti l’esaltazione del piacere riprende la visione laica ed edonistica del Rinascimento, che considera la ricerca del piacere come un istinto naturale, dunque innocente e senza peccato. Tale visione contrasta, però con la nuova cultura della Controriforma, repressiva e moralista. Solo con rimpianto si può allora guardare a quei valori che non appartengono più al presente del Tasso, perché l’abbandono al piacere non è più possibile.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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