Purgatorio canto 6
La situazione politica dell’Italia
Dante non ha ancora iniziato la sua ascesa verso il Paradiso terrestre perché si trova ancora nell’Antipurgatorio. Qui incontra il gruppo di anime morte di morte violenta, le quali devono attendere un tempo pari alla loro vita terrena prima di cominciare la purificazione. Le anime chiedono a Dante di pregare per loro affinché la loro pena sia ridotta. Tale richiesta suscita in Dante un dubbio di cui— dopo la similitudine iniziale — il poeta chiede spiegazione a Virgilio.
Una lettura del canto
Calca di anime intorno a Dante (vv. 1–24)
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
La similitudine realistico-quotidiana dei postulanti che si accalcano attorno al vincitore al gioco dei dadi (zara dall’arabo zar, dado) è una delle più riuscite della cantica. In verità la situazione non è pienamente pertinente, perché le anime non sono noiosi questuanti, ma peccatori che chiedono a Dante di ricordali ai loro parenti affinché preghino per loro, accelerando il processo di purificazione. Tuttavia la similitudine è tra le più riuscite in quanto Dante dipinge con pochi tratti tanti tipi psicologici diversi. il perdente che resta fermo a ripensare ai lanci della partita (attività inutile, perché essendo il gioco basato sul caso, il perdente non può imparare come vincere, perciò si illude); il vincitore imbarazzato che cerca di sfuggire ai postulanti che lo assillano da ogni lato e che si rendono molesti con gesti e parole.
La similutudine ha la funzione di riportare il tono del discorso a un livello più quotidiano, così da permettere a Dante di elevarlo nuovamente al momento opportuno, senza cadere in un eccesso oratorio. La similitudine, inoltre, serve ad aprire il canto sottolineando il carattere aleatorio delle vicende umane; infine suggerisce l’impazienza del poeta verso la realtà politica contemporanea (le anime sono morte violentemente per la situazione di anarchia e sopruso dell’Italia trecentesca).
Quiv’era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa;Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
Sono citati per lo più personaggi toscani uccisi nel corso di lotte politiche interne alle città comunali. Pier da la Broccia era ciambellano del re di Francia, assassinato in un complotto di corte.
Dubbio di Dante circa l’efficacia dei suffragi (vv. 25–57)
Come libero fui da tutte quante
quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
sì che s’avacci lor divenir sante,io cominciai: “El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?”.
Dante chiede a Virgilio spiegazioni su un apparente contraddizione tra le richieste delle anime e quanto scritto nell’Eneide (canto VI, quando la Sibilla dice all’anima di Palinuro negli Inferi: “Smetti di sperare che le decisioni degli dei si pieghino grazie alle tue preghiere”). Il dubbio riguarda la possibilità della preghiera di poter modificare il destino individuale dell’anima e quello complessivo della collettività umana.
Dante chiama Virgilio “luce mia” in quanto auctor poiché Virgilio è una luce non solo per Dante, ma per tutti gli intellettuali del Medioevo.
Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto.
La prima risposta di Virgilio chiarisce che le speranze delle anime sono ben riposte senza che ciò entri in contraddizione con quanto affermato nel suo poema, perché le preghiere dei pagani erano indirizzate a dei “falsi e bugiardi”, quindi risultano essere inefficaci. Inoltre le preghiere stesso, ora provengono da anime in grazia di Dio.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice”.
Virgilio invita Dante a riflettere bene sull’apparente contraddizione, perché potrà vedere come la fede (Beatrice) confermerà ciò che la ragione (Virgilio) ci fa capire.
E io: “Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta”.“Noi anderem con questo giorno innanzi”,
rispuose, “quanto più potremo omai;
ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.
Virgilio invita Dante a proseguire l’ascesa finché il sole non tramonta, infatti il viaggio verso la Salvezza procede solo alla luce del Sole (colui che già copre la costa), simbolo della Grazia divina.
Incontro con Sordello (vv. 58–75w)
Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta”.Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Sordello da Goito è un trovatore provenzale, originario di Mantova. La prima caratterizzazione del personaggio di Sordello è l’isolamento, dovuto alla sua fierezza di carattere, che lo porta a giudicare negativamente il suo tempo. Successivamente si dice che Sordello ha un atteggiamento equilibrato e ponderato (onesta e tarda). Il paragone con il leone indica come l’apparente lentezza di Sordello nasconda la prontezza a scattare come il leone che scatta improvvisamente, come capiterà a Sordello quando sentirà nominare Mantova.
Questa descrizione ci fa capire come Sordello sia un alter ego di Dante, esule e adirato per la situazione politica che vede attorno a sé. Il gesto patriottico di Sordello, che abbraccia Virgilio perché è un mantovano, provocherà il lungo compianto sull’Italia che occupa la seconda parte del canto.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
“Mantüa…” e l’ombra, tutta in sé romita,surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: “O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava.
L’iniziale ritrosia di Sordello di fronte alla richiesta di informazioni è antitetica all’entusiasmo provato al sentire pronunciare la città di Mantova. Sordello abbraccia Virgilio immediatamente solo perché lo riconosce come compatriota e come tale si presenta; questo slancio dà l’occasione a Dante per la successiva apostrofe all’Italia.
“Mantüa…” è l’inizio dell’epitaffio che, secondo la tradizione, Virgilio dettò per la propria tomba: “Mantua me gemuti, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces” (Mantova mi generò, i Calabri mi rapirono [Virgilio morì a Brindisi di ritorno dalla Grecia], ora mi custodisce Napoli [dove tradizionalmente il poeta fu sepolto]; cantai i pascoli, i campi, i condottieri).
Apostrofe all’Italia e a Firenze (vv. 76–151)
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Inizia potentemente l’apostrofe all’Italia, che appare come una parentesi nella narrazione, compatta nel suo sfogo oratorio per lo sdegno sofferto di una passione che si esprime in vibrata poesia. Il tono dell’apostrofe è molto mobile poiché trascorre dall’invettiva al lamento, dalla commiserazione, all’esecrazione, al sarcasmo, all’elegia. Il dolore espresso da Dante per la situazione politica della penisola è sottolineato dalla ricorrenza del termine “dolore” in questi versi.
L’Italia è definita serva, schiava, perché l’unica obbedienza possibile è quella all’Impero, istituzione voluta da Dio; in assenza di questa, l’Italia diventa preda di governanti, principi e signorotti di ogni grado e provenienza che la lacerano nelle loro lotte di potere, togliendole ogni libertà.
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Antitetici l’accoglienza di Sordello a Virgilio e il livore che provano i concittadini dei comuni italiani. Le mura, costruite per difendere la comunità, diventano strumento di reclusione forzata di bestie rissose.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
La prima causa della rovina dell’Italia è il mancato rispetto delle leggi imperiali, che sono uno strumento inutile perché nessuno le fa rispettare. Giustiniano, l’imperatore che riorganizzò il Corpus Iuris Civilis, ha scritto norme eque e giuste, ma non servono a nulla perchè nessuno governa legittimamente l’Italia. La Chiesa ha preso il posto che avrebbe dovuto essere dell’imperatore nel governo della penisola, ciò ha provocato l’anarchia contemporanea a Dante. L’analisi politica è descritta con la metafora del cavallo (l’Italia) sulla cui sella (il governo) non siede l’imperatore (Cesare), perciò nessuno guida il paese con le redini (le leggi).
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
La critica prosegue accusando l’imperatore Alberto I d’Asburgo (imperatore dal 1303 al 1308) che si interessò ai domini tedeschi, trascurando l’Italia (‘l giardin de lo ‘mperio). Tale negligenza sarà punita con la morte del figlio Rodolfo durante le lotte contro i ribelli boemi (profezia post quem perché quando Dante scrive il figlio è già morto) e ricadrà sul suo successore Arrigo VII di Lussemburgo, che scendendo in Italia troverà una situazione ingovernabile.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”.Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
La quadruplice anafora dell’imperativo vieni invita Alberto a un viaggio ideale in Italia, da nord a sud, personificata in una donna abbandonata dal suo sposo naturale, l’imperatore, che la trascura. Questa immagine è ripresa dalle Lamentazione di Geremia “Ah! Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo! è divenuta come una vedova, la grande tra le nazioni; un tempo signora tra le province è sottoposta a tributo” (Lam. 1, 1). Le terzine sono permeate da un amaro sarcasmo, che esprime la disperazione di Dante sulla possibilità di cambiare in meglio la situazione.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Dante conclude l’apostrofe all’Italia chiedendosi se Gesù (sommo Giove) stia guardando altrove. Il rivolgersi a Gesù con l’appellativo del dio pagano era consentito ai poeti dalla retorica medievale, in quanto la divinità pagana era considerata figura di quella cristiana; inoltre nel Paradiso il cielo di Giove presiede alla giustizia (Par. XVIII — XX). Il dubbio di Dante è subito fugato dalla fede in Dio, in quanto l’uomo non può conoscere la volontà di Dio, che prepara un bene superiore attraverso un periodo di crisi di cui l’uomo non scorge la via d’uscita.
Marcello è un’antonomasia: il riferimento significa che ogni villano diventa un demagogo mettendosi a capo di una fazione (parteggiando). Il richiamo è a Caio Claudio Marcello, console incapace e vaniloquente nel 50 a.C.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cennoverso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,ma con dar volta suo dolore scherma.
Il discorso di Dante si chiude on un’invettiva a Firenze, la città in cui il degrado politico si manifesta più che altrove. Qui il sarcasmo di Dante tocca il massimo per esprimere lo sdegno che il poeta prova.
La prima accusa ironica a Firenze riguarda la giustizia: le persone oneste la tengono nel cuore e la fanno uscire dalla bocca solo dopo un’attenta riflessione. Invece i Fiorentini hanno la giustizia già pronta sulla bocca (cioè ne parlano sempre), semplicemente perché l’hanno solo in apparenza e non nel proprio intimo.
In secondo luogo i Fiorentini si propongono per assumere le cariche pubbliche per ambizione personale senza essere preparati o competenti.
Infine le leggi fiorentine non durano una stagione perché ciò che si decide a novembre non è più valido a giugno. Il confronto ironico è con Atene e Sparta, esempi di costituzioni durature e modello di tutte le istituzioni successive. Le leggi di Firenze sono definite sottili con termine equivoco, che significa sia raffinate sia deboli, fragili.
Nei quattro versi finali Dante abbandona l’ironia e paragona Firenze a una malata grave, che rigirandosi continuamente nel letto non riesce a placare il suo dolore, ma peggiora la sua situazione.