“Qui c’è roba”
Mastro Don Gesualdo, cap. 4
Il mito della roba è impersonato dal personaggio di Mastro Don Gesualdo, che per tutta la vita ha lottato per accumulare beni e mutare la propria condizione sociale come posseduto da un’ossessione. Partito dal nulla egli aspira a un riscatto sociale, pronto a sacrificare gli affetti più cari nell’inesauribile ansia dell’arricchimento, fino a trovarsi tragicamente sconfitto dalla cupidigia e dall’india altrui o dalla morte. In queste pagine, nella parte finale del romanzo, Gesualdo ha raggiunto tuttma i gli obiettivi materialistici che si era prefissato, è malato e minacciato dalle rivolte del 1848; i parenti saccheggiano le sue ricchezze e un male incurabile lo devasta.
1^ sequenza
Nella prima sequenza si susseguono le immagini dei parenti che derubano Gesualdo, la malattia descritta come cane arrabbiato che gli mangia il fegato, l’inefficacia dei rimedi popolari e la conseguente perdita di speranza di guarigione.
Intanto la casa di don Gesualdo era messa a sacco e ruba egualmente. Vino, olio, formaggio, pezze di tela anche, sparivano in un batter d’occhio. Dalla Canziria e da Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclamare contro i figliuoli di massaro Fortunato Burgio che comandavano a bacchetta, e saccheggiavano i poderi dello zio, quasi fosse già roba senza padrone. Lui, poveraccio, confinato in letto, si rodeva in silenzio; non osava ribellarsi al cognato e alla sorella; pensava ai suoi guai. Ci aveva un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato, il cane arrabbiato di San Vito martire, che lo martirizzava anche lui. Inutilmente Speranza, amorevole, cercava erbe e medicine, consultava Zanni e persone che avevano segreti per tutti i mali. Ciascuno portava un rimedio nuovo, dei decotti, degli unguenti, fino la reliquia e l’immagine benedetta del santo, che don Luca volle provare colle sue mani. Non giovava nulla. L’infermo badava a ripetere:
― Non è niente… un po’ di colica. Ho avuto dei dispi- aceri. Domani mi alzerò…
Ma non ci credeva più neppur lui, e non si alzava mai. Era ridotto quasi uno scheletro, pelle e ossa; soltanto il ventre era gonfio come un otre. Nel paese si sparse la voce che era spacciato: la mano di Dio che l’agguantava e l’affogava nelle ricchezze. […]
2^ sequenza
Il denaro che corre a fiumi e nipoti che arraffano, la malattia descritta come una palla di piombo nello stomaco, i tentativi di cura, chiamando medici forestieri e l’amara consapevolezza che la salute non si compra, costituiscono la seconda sequenza.
Non gli davano retta neppur quando tornava a balbettare, spaventato da quelle facce serie: ― Mi sento meglio. Domani mi alzo. Mandatemi in campagna che guarirò in ventiquattr’ore. ― Gli dicevano di sì, per con- tentarlo, come a un bambino. ― Domani, doman l’altro. ― Ma lo tenevano lì, per smungerlo, per succhiargli il sangue, medici, parenti e speziali. Lo voltavano, lo rivoltavano, gli picchiavano sul ventre con due dita, gli facevano bere mille porcherie, lo ungevano di certa roba che gli apriva dei vescicanti sullo stomaco. C’era di nuovo sul cassettone un arsenale di rimedi, come negli ultimi giorni di Bianca, buon’anima. Egli borbottava, tentennando il capo. ― Siamo già ai medicamenti che costano cari! Vuol dire che non c’è più rimedio. ― Il denaro a fiumi, un va e vieni, una baraonda per la casa, tavola imbandita da mattina a sera. Burgio, che non c’era avvezzo, correva a mostrare la lingua ai medici, come venivano pel cognato; Santo non usciva più nemmeno per andare all’osteria; e i nipoti, quando tornavano dai poderi, si pigliavano pei capelli: liti e quistioni fra di loro che facevano a chi più arraffa, degli strepiti che ar- rivavano fin nella camera dell’infermo, il quale tendeva l’orecchio, smanioso di sapere quello che facevano della sua roba, e anche lui si metteva a strillare dal letto:
― Lasciatemi andare a Mangalavite. Ci ho tutti i miei interessi alla malora. Qui mi mangio il fegato. Lasci- atemi andare, se no crepo!
Ci aveva come una palla di piombo nello stomaco, che gli pesava, voleva uscir fuori, con un senso di pena continuo; di tratto in tratto, si contraeva, s’arroventava e martellava, e gli balzava alla gola, e lo faceva urlare come un dannato, e gli faceva mordere tutto ciò che capitava. Egli rimaneva sfinito, anelante, col terrore vago di un altro accesso negli occhi stralunati. Tutto ciò che ingoiava per forza, per aggrapparsi alla vita, i bocconi più rari, senza chiedere quel che costassero, gli si mutavano in veleno; tornava a rigettarli come roba scomunicata, più nera dell’inchiostro, amara, maledetta da Dio. E intanto i dolori e la gonfiezza crescevano: una pancia che le gambe non la reggevano più. Bomma, pic- chiandovi sopra, una volta disse: ― Qui c’è roba.
― Che volete dire, vossignoria? ― balbettò don Gesualdo, balzando a sedere sul letto, coi sudori freddi addosso.
Bomma lo guardò bene in faccia, accostò la seggiola, si voltò di qua e di là per vedere s’erano soli.
― Don Gesualdo, siete un uomo… Non siete più un ragazzo, eh?
― Sissignore, ― rispose lui con voce ferma, calmatosi a un tratto, col coraggio che aveva sempre avuto al bisogno. ― Sissignore, parlate.
― Bene, qui ci vuole un consulto. Non avete mica una spina di fico d’India nel ventre! È un affare serio, capite! Non è cosa per la barba di don Margheritino o di qualcun altro… sia detto senza offenderli, qui in confidenza. Chiamate i migliori medici forestieri, don Vincenzo Capra, il dottor Muscio di Caltagirone, chi volete… Denari non ve ne mancano…
A quelle parole don Gesualdo montò in furia: ― I denari!… Vi stanno a tutti sugli occhi i denari che ho guadagnato!… A che mi servono… se non posso comprare neanche la salute?… Tanti bocconi amari m’hanno dato… sempre!…
Nel brano sono presenti 4 temi che si ripetono nelle 2 sequenze:
1. Il saccheggio dei beni di Gesualdo
2. I sintomi della malattia
3. Le inutili cure
4. Il pessimismo di Gesualdo
Analisi stilistica
Nel brano si ripete ossessivamente la parola chiave “roba” lo ungevano di verta roba (pomate vescicanti); smanioso di sapere quello che facevano della sua roba (patrimonio di Gesualdo); roba scomunicata (cibo rigettato); Qui c’è roba (il tumore. Per Gesualdo tutto è “roba”, perché Gesualdo ha dedicato tutto se stesso alla roba, perciò ora non riesce a concepire nient’altro, non riesce più neanche a definire con il loro nome le cose. Questa ossessione è evidenziata dalla scelta del racconto atraverso il narratore omodiegetico focalizzato su Gesualdo. Solo nell’ultima scena del romanzo, quando Gesualdo sarà ormai morto, il narratore cambierà focalizzazione, raccontando il ritrovamento del cadavere dal punto di vista di un servo, che prova sollievo per l’attesa morte del padrone. Questa scelta — come la morte solitaria — sottolinea la povertà di relazioni che ha caratterizzato tutta la vita di Gesualdo, apparentemente un vincitore per la ricchezza e la nobiltà raggiunta, in realtà un uomo solo e disperato.
Approfondimenti
Legame tra ricchezza e malattia: il dottor Bomba afferma “Qui c’è roba”, riferendosi al tumore di Gesualdo, ma la parola indica in Verga la ricchezza materiale. La roba è la ragione di vita di Gesualdo, proprio questa “roba” lo porterà alla morte. La roba diventa la causa prima della morte di Gesualdo, ad indicare che la “religione della roba” è la causa della morte del protagonista.
La malattia “mangia” Gesualdo come lui “ingurgita” ricchezze: le sue ricchezze lo divorano e lo consumano dall’interno, mentre tutti gli altri si preoccupano di sottrargli ciò che ha accumulato.