Stabat nuda Æstas

La caccia al mistero dell’estate

Luca Pirola
4 min readOct 20, 2021
Frederic Leighton, Crenaia, the nymph of the dargle

Il componimento, inserito in Alcyone, è incentrato sulla personificazione femminile dell’estate, allegoria dell’estasi dei sensi e dello spirito che il poeta vive nel corso del suo cammino di fusione con l’energia vitale della Natura.

La lirica racconta una caccia, dunque, una caccia amorosa.
La caccia amorosa ha una lunga tradizione letteraria alle spalle. Il precedente moderno è il poema in prosa Alba (Aube) di Arthur Rimbaud: l’io ridesta la vita e la luce in un’alba estiva, fino a svegliare la dea, l’alba, che fugge mentre lui la insegue. Alla fine l’io riesce a raggiungerla, a toccarla, a sentire «qualcosa dell’immenso suo corpo». Quello antico è la trasformazione di Dafne in lauro come viene raccontata da Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi: Apollo insegue la ninfa Dafne per farla sua, ma quando sta per afferrarla, la ninfa invoca l’aiuto del padre Peneo e viene trasformata in una pianta di alloro.

Schema metrico: tre stanze di otto endecasillabi, con assonanze irregolari

Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la resina gemette giù pe’ fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.

Il poeta narra di aver intravisto una donna, dal piede piccolo, dalla schiena falcata e dai capelli fulvi, correre leggera sugli aghi della pineta nel caldo della piena estate: la insegue e nell’uliveto la raggiunge. Ella fugge sfiorando le stoppie. La donna fuggente ha il potere, con la sua sola presenza, di imporre un silenzio totale alla natura, di fare ammutolire le cicale, di rendere fioco il murmure dei ruscelli e, in tanto silenzio, di rendere percettibile il fluire della resina nei tronchi. Addirittura ha il potere di esaltare gli odori, come quello del serpente.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.

L’inseguitore la chiama, ma la fuggitiva si immerge tra gli oleandri, attraversa i giunchi palustri. Anche la natura è simpatetica, partecipa delle stesse emozioni del poeta: anch’essa cerca di fermare la donna; persino una allodola levatasi in volo la chiama per nome.

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò ne’ suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.

La donna arriva alla spiaggia dove inciampa, cade, e si mostra nella sua nudità. Caduta, la donna si rivela immensa, come se il suo corpo nudo ricoprisse tutto il paesaggio circostante. Questa donna è soprannaturale, è una dea: è l’Estate divinizzata. Che il poeta, poi, la faccia sua il testo non lo dice, ma lo lascia credere.

In Alcyone è manifesta poiché la poesia di d’Annunzio ha come referente naturale la grande tradizione classica. Esistono, tuttavia, profonde differenze, perché l’inutile inseguimento di Apollo si presenta come frustrazione amorosa, impossibilità di realizzare il desiderio; la seconda parte del racconto, però, quella in cui il dio forma una corona con le fronde del lauro in cui la ninfa si è trasformata e la consacra come insegna dei poeti, si presenta come risarcimento sotto forma di dono poetico. Insomma, il mito designa la poesia come canto della mancanza e come frutto della sublimazione del desiderio.

Al contrario nella lirica dannunziana, pur se l’estate fugge, alla fine viene raggiunta: è tutta la natura nella sua immensità che diventa oggetto di posses- so dell’io narrante. La poesia non risarcisce di una perdita e di una mancanza, ma celebra orgogliosamente un trionfo.

Inoltre nel mito ovidiano Apollo è un dio, ma Dafne è una ninfa, appartiene anch’essa a un mondo superiore. L’io poetico di D’Annunzio è indubitabilmente un uomo, ma un uomo capace di possedere un essere divino, un essere immenso come immensa è la natura in cui si identifica, è molto più di un uomo, è lui pure divinizzato, è un superuomo che si eleva sulle masse e, contro le convenzioni sociali, afferma i suoi diritti di essere superiore. Egli dilata il suo io e ricostruisce il mondo attraverso la poesia, imponendo il sigillo di una personalità eccezionale, al di fuori degli schemi, incarnazione dell’ultimo mito ottocentesco del poeta-vate, detentore della parola che svela la verità.

In questa lirica l’io dimentica sé stesso, o meglio, annulla la sua identità per identificarsi totalmente, attraverso un’esperienza panica (di fusione con il tutto) che ha i caratteri dell’estasi smemorizzante, con la natura.
Parallelamente, anche la personificazione dell’estate perde via via i tratti umani per dissolversi, nell’ultimo verso, in una entità astratta priva di ogni denotazione individualizzante. L’amplesso non è dunque tra due esseri finiti, ma tra due dimensioni infinite: la loro fusione segna la perdita dell’identità di entrambi. L’io è natura, e la natura è il corpo dell’io.

Tutto il lessico di Stabat nuda Aestas si presenta come lessico aulico, fortemente connotato di letterarietà: dall’aere che estuava, «quasi bianca vampa effusa» (v. 4), alla resina che geme; dal sentore del colùbro (v. 8) all’«argento palladio» (v. 12) degli ulivi; dal «solco raso» (v. 14) da
cui si alza l’allodola alla «bronzea mèsse» (v. 18); dal falasco che si richiude strepitoso (v. 19) alla paglia marina.

--

--

Luca Pirola
Luca Pirola

Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

No responses yet