Tortura e pena di morte
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
Cesare Beccaria deve la sua fama di giurista alla pubblicazione del trattato Dei delitti e delle pene in cui delinea i principi di una giustizia equa ed efficace entro il processo di sviluppo economico e sociale proposto dall’illuminismo.
Torturare i sospetti è stata una pratica diffusa sin dall’antichità, per estorcere una confessione o per costringere a rivelare i nomi dei propri complici. Contro di essa avevano scritto in molti, nei secoli; ma le considerazioni di Beccaria ebbero una risonanza senza precedenti in tutta Europa.
Capitolo 16 della tortura
Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se nonquando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata.
Beccaria organizza l’argomentazione affermando inizialmente il principio della presunzione di innocenza, da cui fa derivare la logica secondo cui la tortura non ha alcun senso e non è giustificabile all’interno del processo penale: le sue sono, innanzitutto, le riserve di giurisperito.
Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?
è inammissibile che un giudice commini una pena a un imputato quando non si sia ancora deciso se questo imputato è colpevole o innocente? Con quale diritto si tormenta il corpo di un uomo che, finché non si dimostri la sua colpevolezza, è ancora sotto la protezione della società della quale fa parte? La tortura è dunque illegittima in linea di principio, e cioè se una comunità vuole essere coerente con le leggi che essa stessa si è data.
Lo stile del breve trattato di Beccaria mira a dimostrare e mira a convincere, e perciò a questo scopo il giurista adopera tutti i mezzi argomentativi più opportuni, come le domande retoriche («Qual è dunque quel diritto […] innocente?»), la scansione del discorso secondo alternative secche («o il delitto è certo o incerto; se certo […] se incerto…»).
Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati.
Introduce la seconda argomentazione sostenendo l’assurdità logica della tortura, perché il torturatore non stabilisce l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato, ma assoda la sua maggiore o minore resistenza alla tortura. Ma è chiaro che un criminale può benissimo essere (e di solito è) più forte di un innocente, e non confessare la sua colpa, laddove l’innocente — vinto dal dolore — può confessare una colpa immaginaria.
Ma io aggiungo di piú, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti.
La frase finale “è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti.” conclude con efficacia il ragionamento che f leva sulla ragionevolezza e l’evidenza di illogicità della tortura.
capitolo 18 della pena di morte
Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.
Beccaria sostiene l’inutilità della pena di morte da un punto di vista etico, dimostrando l’incoerenza dell’uccisione prevista dalla legge e comminata con ufficialità, perché se le leggi condanno l’omicidio, non possono commetterne uno per punire l’omicidio stesso.
Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori.
La pena di mote non solo è inutile, ma anche dannosa, perché la sua ferocia potrebbe sollecitare la solidarietà degli spettatori verso la vittima, seppur colpevole.
Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo.
La pena di morte si inseriva in una concezione del potere di tipo medievale: il sovrano riceveva ogni autorità direttamente da Dio, quindi anche il diritto di vita e di morte sui sudditi. Beccaria appoggia la concezione del potere del filosofo francese Jean Jacques Rousseau, secondo cui la vita sociale è il frutto di un libero contratto stipulato tra gli uomini, in cui è impensabile che uno possa aver ceduto ad altri il potere sulla propria vita.