Tutta colpa del naso
Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila, libro I, capitolo I
Nell’incipit del romanzo il lettore viene immediatamente posto di fronte all’evento scatenante, dal quale deriverà una crisi esistenziale di enorme portata. Dopo il fulminante commento della moglie, nella vita di Vitangelo Moscarda nulla sarà mai come prima, nemmeno il suo nome.
I. Mia moglie e il mio naso.
– Che fai? — mia moglie mi domandò, vedendomi in solitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, — le risposi, — mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non han no avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Il veloce e banale scambio di battute tra marito e moglie causa lo sgretolamento dell’immagine che fino a quel momento Vitangelo Moscarda ha avuto di sé. Il naso, ritenuto prima sempre uguale a se stesso dal protagonista, viene sottoposto casualmente a un’analisi minuziosa e disgregante che, estesa ad altre parti del corpo, finisce per travolgere l’intera esistenza del protagonista, smantellando uno dopo l’altro i tratti della sua persona sociale.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nel la certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí…
– Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e altri difetti…– Ancora?
Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Questo difetto marginale non compromette la piacevolezza dell’insieme (anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo), eppure l’effetto è enorme, sproporzionato rispetto alla causa. Quel che sconvolge la vita di Vitangelo è il riconoscersi da sempre cieco di fronte a ciò che più di tutto si dovrebbe conoscere: sé stessi, almeno nella veste esteriore del proprio corpo.
Come appare davvero, all’esterno, la forma della nostra persona? La risposta di Pirandello è semplice ma devastante: in un’ottica relativista ognuno vede e sente con i “propri” occhi e le “proprie” orecchie, attraverso il filtro di una soggettività che deforma il reale. Nessuno ha ragione e nessuno ha torto; per questo non può esserci “un solo” naso di Moscarda: esso è moltiplicato dagli sguardi degli altri.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa con cessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
Lo stile è semplice, caratterizzato da una prosa facile, viva e diretta (Schizzai un velenosissimo «grazie»; Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.), costituita da una serie di espressioni strappate al gergo quotidiano e prive di ogni pretesa letteraria, che conferisce alla pagina un’apparenza di banalità, dalla quale emergono invece contenuti molto complessi.
– Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.
Ecco, già — le mogli, non nego. Ma anch’io, se per mettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne pa resse nulla.
– Si vede, — voi dite, — che avevate molto tempo da perdere.
La narrazione in prima persona, che permette all’autore di alternare racconto e riflessione, sfocia in una sorta di “flusso di coscienza” adatto alla forma teatrale. Il narratore si rivolge spesso al pubblico/lettore chiamato all’ascolto: il monologo di Moscarda appare più un soliloquio recitato da un attore sul palcoscenico che una confessione intima che lasci emergere il subconscio della voce narrante. Il dialogo immaginario con un gruppo di interlocutori (sempre definiti con il voi) porta a riconoscere che la scoperta di Moscarda non è un fatto privato, ma la rappresentazione universale di una macroscopica crisi di identità, da cui nessuno può sfuggire.
No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
Vitangelo non trova una caratterizzazione precisa: parlando di sé egli si dipinge come un inetto, un indifferente e superficiale quando si tratta di occuparsi degli affari di famiglia. Sbadato e inattivo egli è un “pensatore” con la testa tra le nuvole (ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni), infatti invece di seguire i consigli del padre Vitangelo si attarda a osservare ogni sassolino in cui si imbatte nelle sue passeggiate. Il sassolino, però, è solo apparentemente materia insignificante: in questa attenzione maniacale al particolare, il protagonista segue il canone dell’umorista, che scompone in minuscoli granelli il mondo circostante per osservarlo e tentare di capirlo.
Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapes sero in sostanza piú di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; ve devo certamente piú di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Per scrutare il mondo dalla posizione privilegiata dell’umorista è necessario “porsi al di fuori dal gioco”, uscendo dai meccanismi sociali in cui gli altri restano invischiati (in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro). E, tuttavia, chi abbandona il suo ruolo precostituito è tacciato di pazzia, di demenza, di anormalità. Togliere la “maschera” significa liberarsi dei luoghi comuni (non avevo perciò né briglie né paraocchi), ma anche affrontare lo smarrimento e una dolorosa solitudine (non sapevo dove andare).
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque — possibile? — non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m’apparteneva no: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che dove va ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo cosí misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.
Si innesca un meccanismo di riflessioni corrosive che sradicheranno, passo dopo passo, ogni certezza pazientemente costruita e depositata nel repertorio elle forme della vita sociale. Vitangelo Moscarda si “è infettato” irrimediabilmente (Cominciò da questo il mio male.): il pungolo dell’analisi — spietata e minuziosa — non lo abbandonerà più, fino a quando, nel prosieguo del romanzo, anche l’ultimo tassello della propria identità (il suo nome) non finirà fra le macerie del vecchio io.
Solo alla fine di questo percorso difficile e doloroso si offrirà una speranza di salvezza, come a dire che unicamente distruggendo l’immagine stereotipata el proprio io è possibile rinascere a nuova vita. La presunta malattia mentale di Moscarda diviene fonte di guarigione.