Una moglie caparbia e dignitosa
La bottega del caffè, atto I, 20
La situazione del giovane mercante di stoffe Eugenio, che da tempo frequenta assiduamente la casa da gioco di Pandolfo, è ormai disperata: il giovane è carico di debiti ed è arrivato a impegnare i gioielli della moglie Vittoria. Don Marzio, nobile pettegolo e maldicente, ha fatto sapere a Vittoria della situazione del marito, insinuando anche che i denari sono spesi per frequentare Lisaura. Vittoria, dunque, interviene per cercare invano di far recedere Eugenio da quel vizio dispendioso.
SCENA VENTESIMA.
Vittoria, poi Eugenio dalla locanda.Vittoria. Voglio accrescere la di lui sorpresa col mascherarmi. (si maschera)
Eugenio. Io non so quel ch’io m’abbia a dire; questa nega, e quei tien sodo. Don Marzio so che è una mala lingua. A queste donne che viaggiano, non è da credere. Mascheretta? A buon’ora! Siete mutola? Volete caffè? Volete niente? Comandate.
Vittoria. Non ho bisogno di caffè, ma di pane. (si smaschera)
Eugenio. Come! Che cosa fate voi qui?
Vittoria. Eccomi qui, strascinata dalla disperazione.
Eugenio. Che novità è questa? A quest’ora in maschera?
Vittoria. Cosa dite, eh? Che bel divertimento! A quest’ora in maschera.
Eugenio. Andate subito a casa vostra.
Vittoria. Anderò a casa, e voi resterete al divertimento.
Eugenio. Voi andate a casa, ed io resterò dove mi piacerà di restare.
Il dialogo è un chiaro esempio della concatenazione delle battute operata da Goldoni: a ogni affermazione di un personaggio ne corrisponde un’altra del suo interlocutore, in opposizione o a completamento; le battute sono spesso concatenate dalla ripresa di un elemento (una parola o un’espressione) o di un concetto. Attraverso la concatenazione creata da maschera e casa si costruiscono giochi di parole e contrasti che rendono con efficacia il sarcasmo di Vittoria
Vittoria. Bella vita, signor consorte.
Eugenio. Meno ciarle, signora, vada a casa, che farà meglio.
Vittoria. Sì, anderò a casa; ma anderò a casa mia, non a casa vostra.
Eugenio. Dove intendereste d’andare?
Vittoria. Da mio padre, il quale, nauseato de’ mali trattamenti che voi mi fate, saprà farsi render ragione del vostro procedere e della mia dote.
Eugenio. Brava, signora, brava. Questo è il gran bene che mi volete, questa è la premura che avete di me e della mia riputazione.
Vittoria è una borghese fedele all’istituto del matrimonio: nella società settecentesca è il ruolo di moglie che garantisce alle donne una posizione sociale. I matrimoni sono affari da uomini, infatti nelle difficoltà Vittoria si appella al suo tutore, cioè il padre, colui che ha effettivamente stipulato il contratto con il futuro marito; questo legame — più degli affetti — vincola il marito al rispetto della donna in quanto rappresentante della famiglia d’origine, in una rete di doveri reciproci che assicurano onorabilità e credibilità sociale.
Vittoria. Ho sempre sentito dire che crudeltà consuma amore. Ho tanto sofferto, ho tanto pianto: ma ora non posso più.
Eugenio. Finalmente che cosa vi ho fatto?
Vittoria. Tutta la notte al giuoco.
Eugenio. Chi vi ha detto che io abbia giuocato?
Vittoria. Me l’ha detto il signor don Marzio, e che avete perduto cento zecchini in contanti e trenta sulla parola.
Eugenio. Non gli credete, non è vero.
Vittoria. E poi, a’ divertimenti con la pellegrina.
Eugenio. Chi vi ha detto questo?
Vittoria. Il signor Don Marzio.
Eugenio. (Che tu sia maledetto!) (da sè) Credetemi, non è vero.
Vittoria. E di più impegnare la roba mia; prendermi un paio di orecchini, senza dirmi niente? Sono azioni da farsi ad una moglie amorosa, civile e onesta, come sono io?
Rivolgendosi al marito Vittoria fa leva sugli argomenti che più sembrano interessarlo, come se pre lui le nozze fossero una semplice questione di denaro: a causa del comportamento del marito Vittoria può minacciare Eugenio di far rescindere il contratto da suo padre. La commedia ha come argomento unificante tutte le complicate vicende dei personaggi l’interesse per il denaro, che è condannato quando diventa fine di ogni azione, ma è apprezzato come ricompensa per il lavoro onesto.
Eugenio. Come avete saputo degli orecchini?
Vittoria. Me l’ha detto il signor don Marzio.
Eugenio. Ah lingua da tanaglie!
Vittoria. Già dice il signor don Marzio, e lo diranno tutti, che uno di questi giorni sarete rovinato del tutto; ed io, prima che; ciò succeda, voglio assicurarmi della mia dote.
Don Marzio è il convitato di pietra del dialogo tra coniugi: non è in scena, ma è continuamente citato come responsabile di quanto succede. la ripetizione cantilenante del suo nome accompagna tutto il litigio tra Vittoria ed Eugenia, facendo di Don Marzio uno dei protagonisti della commedia, nonostante la brevità delle sue apparizioni.
Eugenio. Vittoria, se mi voleste bene, non parlereste così.
Vittoria. Vi voglio bene anche troppo, e se non vi avessi amato tanto, sarebbe stato meglio per me.
Eugenio. Volete andare da vostro padre?
Vittoria. Sì, certamente.
Eugenio. Non volete più star con me?
Vittoria. Vi starò, quando avrete messo giudizio.
Eugenio. Oh signora dottoressa, non mi stia ora a seccare. (alterato)
Vittoria. Zitto; non facciamo scene per la strada.
Eugenio. Se aveste riputazione, non verreste a cimentare vostro marito in una bottega da caffè.
Vittoria. Non dubitate, non ci verrò più.
Eugenio. Animo, via di qua.
Vittoria. Vado, vi obbedisco, perchè una moglie onesta deve obbedire anche un marito indiscreto. Ma forse forse sospirerete d’avermi, quando non mi potrete vedere. Chiamerete forse per nome la vostra cara consorte, quando ella non sarà in grado più di rispondervi e di aiutarvi. Non vi potrete dolere dell’amor mio. Ho fatto quanto fare poteva una moglie innamorata di suo marito. M’avete con ingratitudine corrisposto; pazienza. Piangerò da voi lontana, ma non saprò così spesso i torti che voi mi fate. V’amerò sempre, ma non mi vedrete mai più. (parte)
Vittoria, in questo battibecco, si rivela consapevole dei propri doveri coniugali (Vado, vi obbedisco, perchè una moglie onesta deve obbedire anche un marito indiscreto), ma anche dei propri diritti, pertanto vuole difendere la propria dignità (Piangerò da voi lontana … V’amerò sempre, ma non mi vedrete mai più).
Eugenio. Povera donna! Mi ha intenerito. So che lo dice, ma non è capace di farlo: le anderò dietro alla lontana, e la piglierò colle buone. S’ella mi porta via la dote, son rovinato. Ma non avrà cuore di farlo. Quando la moglie è in collera, quattro carezze bastano per consolarla. (parte)
La necessità di riconciliazione è necessaria per Eugenio soprattutto per ragioni economiche: egli fa un calcolo di convenienza perché la pardita della dote lo lascerebbe sul lastrico. Tale atteggiamento è esplicitato dall’espressione proverbiale che conclude il monologo e indica la visione maschilista della società dell’epoca.
I brevi monologhi hanno una specifica funzione: pongono il personaggio in relazione con lo spettatore e suggeriscono momenti di riflessione. In questo caso Vittoria motiva le sue decisioni, ma nella commedia sono soprattutto Don Marzio e Ridolfo a pronunciare monologhi, rivelando la propria condizione psicologica, e traendo insegnamenti dalle esperienze fatte o anticipando le proprie intenzioni.