Il cadavere di Liliana

Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Luca Pirola
5 min readJan 11, 2022
Gustav Klimt, Morte e vita, 1915

Nel secondo capitolo del Pasticciaccio la polizia sta ispezionando casa Balducci. Gli inquirenti e il commissario Ingravallo osservano la scena del delitto e il corpo della vittima, cercando di ricostruire i fatti. Mentre si scattano foto impietose e Giuliano Valdarena, cugino della donna assassinata, è sorvegliato da due agenti, don Ciccio medita turbato.

Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se alcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l’orlatura e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne, d’un pallore da clorosi: quelle due cosce un po’ aperte, che i due elastici — in un tono di lilla — parevano distinguere in grado, avevano perduto il loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore. L’esatto officiare del punto a maglia, per lo sguardo di quei frequentatori di domestiche, modellò inutilmente le stanche proposte d’una voluttà il cui ardore, il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte, da quella riga, il segno carnale del mistero… quella che Michelangelo (don Ciccio ne rivide la fatica, a San Lorenzo) aveva creduto opportuno di dover omettere. Pignolerie! Lassa perde!

Ingravallo è innamorato della vittima, perciò deve indagare sul delitto nascondendo il proprio coinvolgimento personale. La descrizione del cadavere si sofferma per questo motivo sulle varie parti del corpo, sulla biancheria intima, insiste sulla pulizia e il candore di Liliana, rievocandone la virtù anche nello scempio della violenza subita. Solo successivamente si giunge alla descrizione professionale della ferita mortale. Il punto di vista del narratore, pertanto, è quello di Ingravallo che contemplando con tristezza l’impudicizia involontaria del cadavere si allarga a considerare il significato della morte, intesa coma una decomposizion dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona.

Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondulazione chiara di lattuga: l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo, significava a momenti la frale gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione, tramutata ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino. Tese, le calze, in una eleganza bionda quasi una nuova pelle, dàtale (sopra il tepore creato) dalla fiaba degli anni nuovi, delle magliatrici blasfeme: le calze incorticavano di quel velo di lor luce il modellato delle gambe, dei meravigliosi ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile. Oh, gli occhi! dove, chi guardavano? Il volto!… Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio, sur naso!… Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel nimbo, che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte.

Il testo presenta la pluralità di stili e registri caratteristica della prosa di Gadda: a espressioni dialettali seguono passi lirici per il registro elevato del lessico e per la abbondanza di metafore. Improvvisamente si rompe l’atmosfera contemplativa con l’inserimento del discorso diretto libero (Oh, gli occhi! …). Infine si giunge alla descrizione della ferita (un terribile taglio rosso) che è riportata con il linguaggio burocratico del referto poliziesco.

Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. Aveva preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per loro che guardavano: sfrangiato ai due margini come da un reiterarsi dei colpi, lama o punta: un orrore! da nun potesse vede. Palesava come delle filacce rosse, all’interno, tra quella spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti; un pasticcio! con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. «La trachea,» mormorò Ingravallo chinandosi, «la carotide! la iugulare… Dio!»

Er sangue aveva impiastrato tutto er collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio (don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima, povera mamma!). S’era accagliato sul pavimento, sulla camicetta tra i due seni: n’era tinto anche l’orlo della gonna, il lembo rovescio de quela vesta de lana buttata su, e l’altra spalla: pareva si dovesse raggrinzare da un momento all’altro: doveva de certo risultarne un coagulato tutto appiccicoso come un sanguinaccio.

Il romanesco si diffonde nel proseguo della descrizione, il tono si abbassa continuamente, dando voce a una sorta di coro che commenta le vicende dal proprio punto di vista, che muta anche la interpretazione della realtà, in quanto il tema erotico è trasformato in una invettiva misogina contro l’immoralità delle donne “d’oggigiorno”.

Il naso e la faccia, così abbandonata, e un po’ rigirata da una parte, come de chi nun ce la fa più a combatte, la faccia! rassegnata alla volontà della Morte, apparivano offesi da sgraffiature, da unghiate: come ciavesse preso gusto, quer boja, a volerla sfregiare a quel modo. Assassino!

Gli occhi s’erano affisati orrendamente: a guardà che, poi? Guardaveno, guardaveno, in direzzione nun se capiva da che, verso la credenza granne, in cima in cima, o ar soffitto. Le mutandine nun ereno insanguinate: lasciaveno scoperti li du tratti de le cosce, come du anelli de pelle: fino a le calze, d’un biondo lucido. La solcatura del sesso… pareva d’esse a Ostia d’estate, o ar Forte de marmo de Viareggio, quanno so sdraiate su la rena a cocese, che te fanno vede tutto quello che vonno. Co quele maje tirate tirate d’oggiggiorno.

Liliana, pur presentandosi solamente dopo la sua morte, è uno dei personaggi fondamentali del romanzo e qui rileva tutta la sua ambiguità. Il ritratto della donna oscilla tra quello della vittima innocente e quello di chi, comunque. è invischiato nel male. Si affaccia il dubbio che Liliana abbia volontariamente ceduto all’aggressore, pertanto l’ignominia, la turpitudine potrebbero dipendere dal comportamento della donna. Si tratta, tuttavia, solo di ipotesi, perché il “giallo” gaddiano attiva un processo di conoscenza, vagliando le diverse possibilità, seguendo varie piste che non troveranno mai una fine.

Ingravallo, a capo scoperto, pareva lo spettro di se stesso. Domandò: «L’avete mossa?» «No, dottore,» gli risposero. «L’avete toccata?» «No.» Del sangue era stato portato attorno dai tacchi, da le suole dì qualcuno, sur parquet de legno, che poi si vedeva bene che ci aveveno messo drento li piedi, in quer pantano de spavento. Ingravallo si irritò. Chi era stato?! «Sete na massa de burini!» minacciò. «Brutti caprari de la Sgurgola!»

Il pastiche linguistico di Gadda va ricondotto alla profondità dei temi filosofici ed esistenziali del romanzo, infatti il “pasticcio” espressivo corrisponde allo gnommero che simboleggia l’inspiegabilità del caos e il groviglio della realtà. La descrizione del bel corpo che giace in modo infame appare, allora, la premonizione della condizione umana, imaginata come un nodo, un groviglio un garbuglio in cui si vede la contaminazione tra bellezza e orrore.

vedi anche:
Carlo Emilio Gadda Lo gnommero, il pasticciaccio e la realtà

La gallina e il carabiniere. L’esplosione del “barocco gaddiano”

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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